Per festeggiare la ricorrenza più terrificante dell’anno abbiamo deciso di raccontare Halloween sotto luci differenti, ma questo articolo non vuole esplorare l’horror a cui tutti siamo soliti pensare. Qui non troverete fantasmi, streghe o vampiri, no. Qui troverete la cruda realtà che si tende sempre di più a dimenticare.
Per chi se li fosse persi, invece, lascio qui sotto i link per esplorare gli articoli dell’orrore proposti in queste ultime settimane:
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E dato che il morale è ancora alto, anche quelli delle edizioni passate:
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Halloween 2022: 8 incidenti da brividi in F1
Torniamo a noi. Oggi vogliamo indagare uno dei lati più oscuri della Formula 1: sono più di 40 i piloti della massima categoria che hanno trovato la morte a causa di un incidente avvenuto in pista, senza quindi considerare quanti abbiano rischiato la vita più e più volte, con ripercussioni non sempre di poca intensità.
E i piloti non sono gli unici.
Le norme di sicurezza sono state migliorate nel corso degli anni al fine di ridurre i rischi del mestiere, ma non prima di essere stati costretti ad assistere ad alcuni dei peggiori incidenti della storia del motorsport.
Vi avevo già raccontato il disastro di Le Mans del 1955, il più drammatico che l’automobilismo abbia mai dovuto affrontare, ma gli incidenti di cui vi parlerò oggi sono forse tra i più significativi – o per certi versi macabri – della categoria regina.
Sarà un viaggio nel tempo alla riscoperta di alcuni dei momenti più difficili della Formula 1.
François Cevert, 1973: appuntamento col destino
François Cevert era un pilota francese di origini ebree. Infatti, il cognome con cui il mondo l’ha sempre conosciuto appartiene alla madre, per sfuggire alle persecuzioni naziste.
La sua storia ha però dell’incredibile: promessa dell’automobilismo, debutta nella massima categoria nel 1970, ma il talento e i suoi occhi magnetici gli permettono di ottenere grande fama e visibilità tra il pubblico e le scuderie.
Si annida però una tragedia già scritta nel suo destino: in occasione del Gran Premio degli Stati Uniti al circuito di Watkins Glen, François perderà la vita in un terribile incidente, durante le qualifiche del 6 ottobre 1973, proprio dove era riuscito a vincere per la prima e unica volta nel 1971 un GP di F1.
François, nonostante i suoi numerosi flirt, ha sempre avuto una fidanzata storica che rispondeva al nome di Anne Van Malderen, la quale cinque anni prima di incontrare il pilota, si recò da una cartomante. Non storcete ancora il naso, la parte più tetra deve ancora arrivare. Questa rivelò ad Anne che il suo matrimonio non sarebbe durato – all’epoca era ancora sposata con un altro uomo – ma che avrebbe conosciuto un ragazzo dagli occhi bellissimi che le avrebbe fatto perdere la testa. E così accadde.
Cevert nel frattempo si dedicò alla sua carriera e conquistò una serie di successi, mentre Anne decise di recarsi per la seconda volta dalla cartomante, al fine di domandarle la natura del futuro del suo amato François. Lei guardò le sue foto e le disse che avrebbe ottenuto grandi risultati, ma non sarebbe mai arrivato al suo trentesimo compleanno.
La donna raccontò tutto quanto al pilota, che non le credette. Chi lo avrebbe fatto? François decise di presentarsi lui medesimo dalla cartomante, la quale gli riferì ciò che aveva già pronunciato alla sua fidanzata. Lui non vacillò e non volle crederle neanche questa volta. François Cevert voleva diventare campione del mondo, non aveva tempo per queste fandonie.
Arrivò così il GP degli Stati Uniti 1973. Cevert stava battagliando con Ronnie Peterson per la pole position quando, alle veloci Esse, nella parte iniziale del tracciato, la sua Tyrell non curva, andando a schiantarsi a più di 200 km/h contro il guard-rail, rimbalzando contro quello dall’altra parte della pista, dopo essersi capovolta e spezzata a metà. Una delle ruote anteriori era riuscita a sfondare il suo casco, provocandone la morte istantanea.
Ignote sono le cause che hanno determinato le dinamiche dell’incidente, ma François Cevert morì all’età di 29 anni, senza mai poter raggiungere quel trentesimo compleanno.
Niki Lauda, 1976: la tragedia che segnò la F1
Era l’1 agosto 1976. Questa data non si può dimenticare con così tanta facilità, come questo incidente che è diventato il più famoso mai affrontato dalla categoria regina. Niki Lauda, soprannominato Il computer, si è laureato 3 volte campione del mondo di F1, due delle quali dopo quel terrificante schianto avvenuto durante il Gran Premio di Germania, alla curva Bergwerk del Nürburgring.
Lui quella gara nemmeno la voleva correre: reputava il circuito inadatto e insicuro per permettere di disputare in quel week-end di pioggia imperterrita un Gran Premio. Niki non tenne per sé queste considerazioni, accogliendo il supporto di altri piloti, ma anche le antipatie degli organizzatori.
Si tenne una votazione per decidere le sorti della gara, ma i risultati videro il proseguire dell’evento. Così, arrivò quel primo terribile giorno di agosto, aperto da James Hunt, seguito dallo stesso Niki Lauda, in prima fila. Alla partenza pioveva ancora su alcune zone del circuito, ma Jochen Moss decise di montare le gomme slick per sfruttare invece quelle asciutte. Infatti, gli altri piloti – Lauda compreso – copiarono la strategia, rientrando ai box. Bisogna ricordare che all’epoca non v’erano a disposizioni termocoperte: le gomme montate sulla Ferrari di Lauda erano fredde.
Giunto alla curva Bergwerk, il presagio che lo aveva accompagnato per tutto il week-end si rivelò realtà. Perse il controllo della sua monoposto, andando a sbattere violentemente contro il guard-rail e la roccia situati a bordo pista. Conseguenza delle gomme non in temperatura, della pozza d’acqua o del cordolo bagnato, il disastro avvenne. La vettura prese fuoco e Niki rimase intrappolato tra i suoi rottami, privo di casco in quanto andato perso a causa dell’impatto, complice anche il rientro in pista che vide la monoposto essere investita dalla Surtees di Brett Lunger.
Se non fosse stato per i piloti precipitatosi sul posto in attesa dei soccorsi, Niki Lauda non sarebbe sopravvissuto: liberato dalle cinture di sicurezza, venne estratto dalle lamiere infuocate e adagiato sull’erba circostante ancora cosciente. I danni erano molto gravi. Le ustioni erano evidenti, ma anche l’inalazione dei gas tossici sprigionati dall’incendio avevano danneggiato sangue e polmoni.
Quel giorno fu James a vincere il Gran Premio di Germania. Quell’anno Niki perse il mondiale. L’8 settembre tornò in pista, in occasione del Gran Premio d’Italia. Ma fu il Gran Premio del Giappone a celebrare la sua sconfitta: celebrare, perché quel giorno Niki comprese qualcosa di importante.
Quel giorno pioveva, proprio come al Nürburgring. Niki Lauda si ritirò dopo due soli passaggi, e non provò a giustificare in alcun modo la sua scelta. Hunt divenne campione del mondo. Lauda lo seguì per la seconda volta l’anno successivo e una volta ancora nel 1984. Trovò la morte nel 2019, vittima di un’insufficienza renale. Venne sepolto con indosso la tuta dei suoi anni in Ferrari.
Tom Pryce, 1977: quel terribile GP del Sud Africa
Gran Premio del Sud Africa 1977. Niki Lauda vinse questa gara, conquistando così la sua tredicesima vittoria, e come ho già detto quest’anno vincerà anche il suo secondo titolo mondiale. La gara si corse di sabato al Circuito di Kyalami, era il 5 marzo, ma questa volta non servì la pioggia a coronare questa data funesta.
Siamo al ventunesimo giro, quando Renzo Zorzi, alla guida della Shadow, viene costretto a fermarsi davanti ai box – in corrispondenza della linea del traguardo – a causa di un guasto al serbatoio della benzina: questo portò al verificarsi di un principio d’incendio.
Ora, nel 1977 non esisteva ancora la safety car, ma la bandiera gialla sì. Zorzi abbandonò l’abitacolo e attivò il sistema di estinzione della sua vettura, in attesa dei soccorsi. La gara stava procedendo regolarmente, senza che nessuno dei piloti fosse avvisato di cosa stesse accadendo in pista. Nessuna bandiera venne mai esposta.
Furono due i commissari inviati sul posto: uno riuscì a raggiungere la Shadow di Zorzi, occupandosi di placare qualsiasi fiamma con l’estintore; il secondo, invece, non ci riuscì. Si chiamava Frederik Jansen van Vuuren, era uno studente sudafricano di soli 19 anni.
Quando i commissari fecero la loro entrata sconsiderata in pista, Tom Pryce, Hans-Joachim Stuck e Jacques Laffite, per scarse condizioni di visibilità, non notarono subito la loro presenza. Pryce, infatti, colpì con la sua Shadow il giovane Frederik, il quale venne sbalzato violentemente in aria e ricadde dilaniato, morendo sul colpo.
La tragedia non finisce qui: l’estintore tenuto in mano questa volta da Frederik, nell’impatto, raggiunse lo stesso Pryce, che venne colpito in testa al pari di una forza d’urto di diverse centinaia di chili (a causa del peso dell’estintore e dell’elevata velocità a cui stava correndo). Tom Pryce perse la vita all’istante. Questo perché, rimasto senza casco, l’estintore sfondò il suo cranio, provocando anche una parziale decapitazione.
Raccapricciante fu il proseguimento: la monoposto non si fermò, arrivando a rimbalzare contro il guard-rail per rientrare successivamente in pista e centrò in pieno la vettura di Laffite, che fortunatamente non riportò gravi danni fisici. Tutto questo mentre Pryce era già morto.
La gara non si fermò. Niki Lauda vinse per la prima volta dopo il rogo del Nürburgring. Le misure di sicurezza non vennero prese seriamente in considerazione ancora fino alla morte di Ayrton Senna, 17 anni più tardi.
Gerhard Berger, 1989: il fuoco di Imola
Siamo ad Imola, in quel 23 aprile del 1989, quando la Ferrari di Gerhard Berger prende fuoco in diretta televisiva. Si stava disputando il terzo giro del Gran Premio di San Marino al momento dell’incidente: Berger stava inseguendo Riccardo Patrese quando all’imbocco della curva del Tamburello si schiantò contro il muro esterno alla pista, andando dritto ad una velocità di 280 km/h, senza alcun tentativo di sterzata.
Le immagini ancora oggi sono da brividi: la monoposto rimbalzò più volte contro il muro, lasciandosi dietro pezzi di ferraglia fino a fermarsi una volta raggiunto la fine di questo. Ma al suo arresto, la Ferrari di Berger – ancora confinato nell’abitacolo – venne avvolta dalle fiamme, a causa della quantità ancora alta di benzina presente nel serbatoio. Una volta chiamata la bandiera rossa, i soccorsi raggiunsero il luogo dell’incendio in pochi secondi e il pilota venne estratto dalla monoposto prima di essere trasportato in ospedale.
Gerhard Berger riuscì a sopravvivere all’incidente, ricavandone “soltanto” una costola rotta e varie ustioni di secondo grado agli arti superiori. Il pilota tornò a correre con la Ferrari già dal GP del Messico, saltando esclusivamente il GP di Monaco.
Ciò che ancora oggi porta il sangue a raggelarsi sono le dinamiche dell’incidente, così simili a quelle che vedranno la morte di Ayrton su quello stesso circuito.
Ayrton Senna, 1994: la morte di un eroe
Vorrei condividere con voi il prologo di un libro un po’ speciale. Un libro che in questi giorni mi sta accompagnando ad ogni fermata dell’autobus. “Ayrton Senna. Il pilota immortale“, è il titolo che Leo Turrini, giornalista e scrittore, ha scelto per raccontare la storia della sua amicizia con Ayrton, ma soprattutto quella maledetta domenica di Imola del 1994.
La hostess non si limita a controllare la mia carta d’imbarco. Senza dire una parola, curiosamente mi accompagna fino al posto in business class. É una forma di cortesia vagamente incomprensibile.
Poi, di colpo, capisco.
Subito dietro la mia poltrona, è stato creato uno spazio privo di sedili. Li hanno rimossi. Sul pavimento, è adagiata una cassa, avvolta in una bandiera del Brasile, dai classici colori verde e oro.
La hostess sta piangendo. Fatica a trovare le parole: “Sa“, mi sussurra, “non ce la sentivamo proprio di rispettare le norme di viaggio. Non potevamo riportarlo a casa chiuso nella stiva, un bagaglio tra gli altri bagagli“.
Lui, no. Ayrton, no.
É tutto surreale. Anzi, no, incredibile. Ma dove è finita la realtà che conoscevamo, fino a pochissimi giorni fa?
É martedì 3 maggio 1994. Sono le sette di sera. Siamo all’aeroporto Charles de Gaulle, a Parigi. Mi sono appena imbarcato su un volo della compagnia Varig, un simbolo per l’intera nazione brasiliana.
Ci aspettano a San Paolo.
Leo Turrini, “Ayrton Senna. Il pilota immortale“, © 2021 Comedit Srl.
Eccoci qui, a parlare di quel 1 maggio 1994. Il Gran Premio di San Marino sarà l’ultima gara che ospiterà la figura di Ayrton Senna, ritenuto ancora oggi uno dei più grandi piloti della Formula 1. Laureatosi tre volte campione del mondo, soltanto la morte è riuscita a frenare la sua sete di vittorie. Michael Schumacher all’epoca era già diventato il suo acerrimo rivale, prima di lui Alain Prost.
Quella gara sarebbe dovuta essere annullata. Rubens Barrichello è il primo a caderne vittima: sarà proprio Ayrton a raggiungerlo in ospedale, a vederlo riaprire gli occhi, dopo un terribile incidente alla variante bassa, verificatosi durante le prove libere del venerdì. Poi, la morte di Roland Ratzenberger, durante quelle del sabato. Ma è una morte troppo poco rilevante. Soprattutto, è una morte che verrà certificata soltanto una volta che il corpo raggiungerà l’ospedale. Il Gran Premio può quindi proseguire, Roland non ha perso la vita in pista. Invece sì, e Ayrton lo seguirà il giorno dopo. Ma su questo punto ci ritorneremo un’altra volta.
Il Gran Premio di San Marino inizia con un incidente alla partenza. Viene chiamato il regime di safety car, la quale rimarrà in pista fino al quinto giro. Al settimo è Senna a provocare un altro incidente: perde il controllo della sua Williams alla curva del Tamburello a causa del cedimento del piantone dello sterzo modificato nella notte per permettere una migliore visibilità della strumentazione. Ayrton aveva premuto tanto per questa modifica.
Senna esce così di pista e impatta contro il muro. Il colpo è mortale: la visiera del casco viene sfondata dal puntone della sospensione destra anteriore, ormai rotta. Neanche i soccorsi possono fermare l’inevitabile: il pilota ha perso 3 litri di sangue, riporta gravissimi danni e viene ritrovato incosciente nell’abitacolo. Una volta giunto in ospedale, dopo vari tentativi di rianimazione, verrà decretato morto alle 18:40.
Il migliore adesso lo stiamo seppellendo. É finito il mercoledì dei cortei e delle parate, San Paolo è alluvionata dalle lacrime di folle oceaniche. É il giovedì dell’estremo saluto. L’addio che sigilla un’epoca. Meglio ancora: un’epopea. Può darsi che ora, davanti a una cerimonia tanto dolorosamente grandiosa, tutti abbiano capito chi sei.
Mi correggo. Avranno capito chi eri.
Leo Turrini, “Ayrton Senna. Il pilota immortale“, © 2021 Comedit Srl.
Jules Bianchi, 2014: addio Jules
Jules Bianchi, classe 1989, è stato un pilota di F1 francese – ma di origini italiane – che il 17 luglio 2015 trovò la morte alla sola età di 25 anni, dopo aver trascorso più di nove mesi in coma.
Jules era un ragazzo dall’animo gentile – un sorriso sempre ad adornare il suo viso – che aveva realizzato solo l’anno precedente il suo più grande sogno: correre nella categoria regina dell’automobilismo. A lui si deve quella che oggi conosciamo tutti come la Ferrari Driver Academy, a lui si deve in parte la passione di Charles Leclerc, Il Predestinato, per il Cavallino rampante.
Il sogno, però, venne infranto dall’incidente che non restituì più Jules al mondo delle corse, ma soprattutto alla sua famiglia. Pioveva a Suzuka, in quel funesto 5 ottobre del 2014, in occasione del GP del Giappone. Le condizioni della pista erano al limite, i piloti cominciavano ad esprimere la loro perplessità sulle sorti di questa gara.
La partenza era già avvenuta dietro alla safety car, sospesa poi per un testacoda di Marcus Ericsson, e riavviata dopo 20 minuti. Qualcosa però va storto: Adrian Sutil perde il controllo della sua Sauber e finisce fuori pista alla curva Dunlop. Vengono avviate le procedure di sicurezza per rimuovere la monoposto dal circuito, questo avvalendosi di una gru per rimuoverla dal tracciato e portarla oltre le barriere. Ma la safety car non verrà mai chiamata per tornare in pista, ci saranno soltanto le bandiere gialle a segnalare l’incidente.
Questa decisione scatenerà una tragedia: qualche istante dopo, Jules Bianchi, al volante della Marussia, si schiantò violentemente contro quella gru, avendo perso anche il controllo della vettura nel medesimo punto di Sutil. Questa rimase incastrata sotto la gru e l’impatto indusse il pilota ad entrare in coma.
Le successive indagini della FIA avrebbero rivelato un impatto pari a 254G, con una decelerazione ancora più violenta che avrebbe soltanto aggravato le condizioni di Jules.
La gara venne finalmente interrotta – e mai ripresa – per permettere al personale medico di raggiungere Jules e soccorrerlo. Venne prontamente trasportato nel vicino ospedale di Yokkaichi, ma le condizioni apparivano già per tutti gravissime. Nulla servì a ridurre l’ematoma formatosi nel cervello di Jules, dichiarato morto un anno dopo, al nosocomio di Nizza.
Ma non è bastato: nella stessa Suzuka, neanche un paio di settimane fa, si è ripetuto lo stesso errore. La pioggia batteva sul circuito, rendendo impossibile la visuale. Carlos Sainz è stata la prima vittima della giornata, ma fortunatamente non ha riportato gravi danni, pena l’ennesimo DNF della stagione. Pierre Gasly, invece, si trova ancora in pista quando nota la gru incaricata di trasportare la Ferrari compromessa di Sainz oltre le barriere. Se avesse perso il controllo della sua monoposto come accaduto a Carlos al giro precedente, si sarebbe ripetuto il medesimo scenario di otto anni fa.
La reazione della FIA è disgustosa: Gasly riceve una penalità di 20 secondi per aver superato la velocità di 200 km/h quando – a detta dei commissari – era già stata esposta la bandiera rossa. Sono state avviate ulteriori indagini su tali eventi, in quanto pare che neanche gli altri piloti fossero stati avvisati della bandiera rossa, ma Pierre ha comunque accettato la penalità. Il problema è un altro:
“Sono contento di essere tornato a casa sano e salvo stasera“, ha commentato il pilota dell’Alpha Tauri, “per il rispetto di Jules, di tutta la sua famiglia e per la nostra sicurezza e quella dei commissari, non dovrebbero mai esserci né trattori né commissari in pista in queste condizioni di scarsa visibilità“.
“Per chiarezza, come discusso con i commissari, la penalità è stata data per essere andato troppo veloce tra la Curva-14 e la 15, che non è il punto in cui si trovava il trattore. Lì, invece, stavo rispettando la velocità prevista durante la Safety Car. Avvicinandomi alla Curva-12, la bandiera rossa è stata esposta troppo tardi perché potessi reagire e frenare in modo sicuro con il trattore ed i commissari in traiettoria. In Curva-14 e Curva-15 stavo effettivamente andando troppo forte e me ne assumo la responsabilità“.
Fernando Alonso, 2015: il mistero di Montmelò
L’incidente che coinvolse il due volte campione del mondo Fernando Alonso alla Curva 3 del Circuit de Catalunya, mentre si trovava alla guida della sua McLaren, in occasione dei test invernali a Barcellona, è ancora oggi un vero mistero.
Sin dai primi giorni, la scuderia aveva fornito versioni diverse riguardo le dinamiche dell’accaduto. Inizialmente, avevano sostenuto che la colpa fosse da affidare alla forza del vento e al contatto con l’erba sintetica. Poi, lo stesso Alonso parlò di un problema allo sterzo, improvvisamente bloccato, che lo costrinse a sbattere contro il muro. Il pilota negò anche di aver manifestato un malore al volante, di aver ricevuto una scossa elettrica e persino di aver perso conoscenza. Anzi, raccontò di ricordarsi tutto quanto.
A marzo, il quotidiano spagnolo El Pais, rilasciò le risposte date da Fernando ai medici dell’ospedale di Barcellona: “Sono Fernando, corro sui kart e vorrei diventare un pilota di Formula 1“. I ricordi dei suoi ultimi vent’anni sembravano essere spariti dalla sua mente. La stampa tedesca, invece, lasciò spazio ad altre indiscrezioni: “Fernando Alonso subito dopo l’incidente parlava in italiano e credeva di guidare una Ferrari“. Comunque, Alonso non lasciò l’ospedale prima di tre giorni e mezzo di ricovero.
Si cominciò così a parlare di un sovraddosaggio di sedativi, che avrebbe potuto provocare il momentaneo vuoto di memoria dell’incidente. Perché Fernando, ad aprile, diceva di ricordarsi ogni dettaglio. Ma i testimoni oculari dell’incidente continuavano a sostenere la perdita di conoscenza del pilota, mentre la McLaren aveva rilasciato un comunicato che affermava il mancato rilevamento di un guasto meccanico.
Gli avvenimenti che circondano l’incidente a Montmelò di Fernando Alonso non sono ancora ad oggi chiari. Sono molte le speculazioni che circondano tale vicenda. Oggi il due volte campione del mondo corre ancora in F1, e non sembra intenzionato a fermarsi. Alcuni sono persino convinti che quella annunciata perdita di memoria degli ultimi vent’anni della sua vita, sia il reale motivo della sua salda permanenza nella massima categoria.
Romain Grosjean, 2020: The Phoenix
Il 29 novembre 2020 la F1 è rimasta con il cuore in gola per 2 minuti e 45 secondi al Bahrain International Circuit, in occasione del Gran Premio del Bahrain.
Sembra una partenza immacolata – per una volta – quando tutti i piloti superano le prime curve indenni. Questo fino a quando non si verifica un contatto tra la Haas di Romain Grosjean e l’Alpha Tauri di Daniil Kvjat. La monoposto di Grosjean colpisce quasi perpendicolarmente il guard-rail e si spezza in due. La bandiera rossa viene chiamata quando ancora non si conosceva l’identità del pilota coinvolto nell’incidente.
L’Haas – mentre Romain è ancora bloccato nell’abitacolo – prende fuoco. Le fiamme sono causate dalla fuoriuscita di carburante dovuta alla separazione del serbatoio dal sistema di alimentazione. La cellula di sopravvivenza (componente progettata dall’azienda Dallara proprio allo scopo di garantire la sopravvivenza del pilota) rimane incastrata nella barriera, presto coinvolta nell’incendio.
2 minuti e 45 secondi è il tempo trascorso dalla vista delle prime lingue di fuoco all’abbandono di Romain Grosjean della sua monoposto. Romain ha passato concretamente 28 secondi rinchiuso nella sua stessa vettura in fiamme.
“Ho cercato di alzarmi, ma non ce la facevo e ho pensato: ‘É finita’, mi sono chiesto se sarebbe stato doloroso, in pochi hanno la percezione della morte così vicina e possono pensare: ‘Ora che succederà?’. Quando mi hanno tirato per la tuta ho capito che sarei sopravvissuto“.
Grosjean lascia la sua Haas con un salto e una scarpa sola. Viene trasportato prima al centro medico, poi in ospedale. Nonostante il forte dolore fisico provato e la paura paralizzante, le uniche ferite riportate sono ustioni superficiali che ricoprono soprattutto le sue mani. Oggi corre ancora come pilota automobilistico di IndyCar.
Giulia, Giu per chiunque. 20 anni. Studentessa di lettere e fonte di stress a tempo pieno. Mi diletto nello scrivere di ogni (ma soprattutto di F1) e amo imparare. Instagram: @ xoxgiu