Quante volte ne abbiamo parlato. Quante volte ne continueremo a parlare. Quante volte sentiremo quelle stesse emozioni e quante volte ci ripeteremo nella nostra testa: ognuno ha i propri tempi, io non sono come gli altri, l’esame era molto difficile. Quante volte, l’università italiana, dimostrerà che alla fine dei conti si vede che per diventare docenti non servono solo 24 CFU o una, due, anche tre lauree. Perché per essere un bravo professore, bisogna essere una brava persona, che vede gli studenti non dalla testa in su, ma dalla mente in giù.
“Vedere gli studenti non dalla testa in su, ma dalla mente in giù” non è una frase coniata, o pensata, da me. Durante il mio Erasmus in Croazia, quello che mi ha fatto ritrovare la passione in quello che studio e in quello che dovrebbero essere i docenti (potrebbe interessarvi leggerlo, magari: Erasmus: perché esiste il luogo comune della nullafacenza?), ho studiato glottodidattica, nel dipartimento di italianistica, nella facoltà dedicata proprio a chi vuole diventare docente di italiano. In questa facoltà ti insegnano a insegnare, e questa è una cosa che, in Italia, purtroppo manca.
Come puoi pensare che 24 CFU possano rendere una persona capace di affrontare una classe di adolescenti o, ancor di più, di studenti universitari? Con tutte le problematiche che potrebbero esserci, con la consapevolezza che, dopotutto, esiste un filtro affettivo, esiste l’ansia, esistono diverse classi sociali, esistono persone che studiano e lavorano, altre che si svegliano alle 5 del mattino per arrivare in tempo all’università, esistono diversi caratteri, personalità. Ma soprattutto dovrebbero avere la consapevolezza che un docente che ama la propria materia, trasmetterà l’amore e la passione anche ai propri studenti, che quindi studieranno con più piacere e motivazione.
Dovrebbero sapere, ancora, che il fallimento di uno studente è anche quello di un docente. Così come il suo successo, è dovuto in primis al suo impegno e alla sua dedizione, ai suoi sacrifici e al sudore gettato sui libri, ma anche a un insegnante che è stato umano, gentile e, soprattutto, appassionato. Un professore, universitario come liceale, deve sapere che un numero sbagliato in tutto l’esame, forse è solo distrazione, e non sinonimo di ignoranza o, ancor peggio, di bestemmia.
Un buon insegnante dovrebbe ricordare che anche lui è stato uno studente, anche lui ha avuto l’ansia, anche lui ha studiato ore e ore per poi, magari, essere bocciato perché non conosce quello che era scritto in una parentesi di uno dei quattro libri da studiare.
Per questo, oggi, voglio rivolgermi a te, caro studente che come me ti sei trovato immischiato in un’università non creata per gli studenti e che non invoglia a coltivare le proprie passione. Consapevole, ovviamente, che c’è chi ha la fortuna di avere dei docenti umani e università con delle segreterie che non ti fanno attendere una settimana per una risposta e dei regolamenti di dipartimento che fanno saltare la laurea di un’intera sessione, spero che nessuno si senta toccato o insultato da un articolo che ha come unico obiettivo quello di consolare. E se qualcuno si sente toccato, forse, dovrebbe ragionare sul proprio operato e chiedersi: sono un buon docente?
Caro studente, l’università è difficile
Professori, segreterie, colleghi, sono tantissimi gli ostacoli che un ragazzo trova durante la sua carriera universitaria. Abbiamo i docenti che inesorabilmente cercheranno di tagliarti non solo le gambe, ma anche le ali. Abbiamo le segreterie che non saranno capaci di risolvere un semplice problema e che inizieranno uno scarica barile. E, infine, abbiamo i colleghi, gli studenti come te che però faranno di tutto per andarti contro e sminuire te stesso e tutte le tue fatiche. Vorrei iniziare, però, citando Beppe Severgigni, che non è una persona che apprezzo particolarmente per alcune tristi uscite, ma che in questo caso ha davvero ragione e bisogna concederglielo:
«Dica la verità. Voi insegnanti, proprio come noi giornalisti, siete spesso tentati di esclamare: “Non capiscono!”. Ma se chi sta di là non capisce – allievi o lettori, fa lo stesso – la colpa è sempre di chi sta di qua. Il fallimento di una classe è il fallimento di un insegnante: non ci sono eccezioni a questa regola. L’eccessiva severità maschera l’inadeguatezza. I professori cattivi sono, quasi sempre, cattivi professori. […] La severità, talvolta al limite del sadismo, non è una via d’uscita. Prima di giudicare, bisogna istruire. Prima di selezionare, occorre formare. Altrimento, come diceva Don Milani, “la scuola diventa un ospedale che cura i sani e respinge i malati”.»
Beppe Severgnini, La vita è un viaggio
«I professori cattivi sono, quasi sempre, cattivi professori», cosa significa questo? Significa che essere severi va bene. Ognuno decide come insegnare, se essere dei docenti amici o se limitarsi a insegnare. Tuttavia, tra severità e sadismo c’è una bella differenza. Avevo una professoressa alle superiori, insegnava greco e latino, ed era molto severa. A volte ci diceva tante parole, ma ci spronava sempre a fare di più. In quel momento pensavamo fosse cattiva, la temevamo. Ma arrivati all’esame di maturità, o più in generale all’ultimo anno, ci siamo resi conto di quanto quella docente fosse gentile, di quanto ci volesse davvero bene. Perché tu puoi essere un’insegnante severa, senza però dimenticare di essere anche un essere umano.
Quando sei un docente di un’università, ovviamente, è tutto diverso. Non hai un rapporto stretto con i tuoi studenti (anche se, devo dirvelo, in Croazia, all’Università di Zadar, ho anche trovato questo rapporto con gli insegnanti, che mi chiamavano collega, che ricordavano il mio nome, che facevano di tutto per invitare gli studenti a partecipare alla lezione), tuttavia davanti hai sempre gli stessi studenti che qualche mese prima erano in quelle piccole aule di scuole, quegli studenti che pendono dalle tue labbra sperando di farsi notare, oppure di passare inosservati. Ma tu, caro studente, devi solo agire pensando a te, perché se non pensi tu a te stesso, nessuno lo farà mai.
Nessuno ti capirà più di te stesso, nessuno di accetterà se tu non lo farai, nessuno ti tirerà su il morale, se penserai tu in primis di non essere all’altezza. Ma ti dirò qualcosa: tu sei all’altezza. Sei all’altezza della vita, dell’università, di quell’esame che proprio non riesci a superare nonostante le ore di studio incessante. Il problema, non sei tu. Il problema non è che non conosci abbastanza tutte le 800 pagine del libro, il problema non è quell’unica formula che non ricordi, ma il problema è un sistema universitario che ci vede semplicemente come menti vuote da riempire di informazioni che con molta probabilità avremo dimenticato, e non come persone.
Il problema è che ci fanno studiare il passato, senza pensare al presente o ancor di più al futuro. Se c’è una cosa che ho compreso in Erasmus, è che l’Italia è troppo legata al passato. Dalle culture antiche possiamo imparare e studiare tanto, ma quanto sarebbe interessante rendere queste culture antiche moderne? Vedere come le cose sono cambiate, e ragionare con la propria mente, e non con la mente del docente. Avere una propria idea, ed esprimerla, scriverla, dirla oralmente o ancora in una presentazione. In un esame ti dovresti mettere alla prova, non dovresti semplicemente ripetere le cose dette dal docente, o dallo scrittore del libro che hai studiato.
Forse io sogno troppo, forse io sono troppo affezionata a un’idea di università che avevo immaginato nella mia testa e un po’ nel mio cuore, ma non penso che sia troppo utopico, non è così? Caro studente, non sarebbe bello andare in università, e a un esame, con un sorriso? Non sarebbe bello sentirsi felici di studiare, e studiare con piacere? Non sarebbe meraviglioso non sentirsi un fallimento ogni volta che non si supera un esame perché il docente ha deciso che tu sei quel voto? Perché il docente non ti ha ascoltato abbastanza, o era stanca, o ancora perché si è svegliata con il piede sbagliato.
Caro studente, tu sorridi comunque, conosci te stesso e, al massimo, vai in Erasmus.
Potrebbe interessarvi:
- L’università non è una gara e quando lo capiremo potremo viverla al meglio
- Essere universitari nel XXI secolo: cosa significa?
L’università è da tempo diventata un contenitore per lo status quo, una macchinosa istituzione che offre e reitera svogliatamente saperi preconfezionati e senza spirito critico a masse di giovani annoiati e pelandroni che vi passano il tempo come parcheggio.
— Il Rabdomante (@comein1specchio) January 21, 2022
Giulia, 26 anni, laureata in Filologia Italiana con una tesi sull’italiano standard e neostandard, “paladina delle cause perse” e studentessa di Didattica dell’Italiano Lingua non materna. Presidente di ESN Perugia e volontaria di Univox. Amo scrivere, leggere, guardare serie tv e anime, i gatti e seguire le giuste polemiche.
Instagram: @murderskitty