Matteo Messina Denaro: la malattia e l’identità di Bonafede

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Il verbale di uno dei colloqui condotti dai procuratori antimafia di Palermo, Paolo Guido e Maurizio De Lucia, con il boss Matteo Messina Denaro è stato formalmente presentato, dopo che il mafioso è stato catturato il 16 gennaio 2023, ponendo fine a una latitanza di tre decenni. Il boss ha acconsentito a rispondere alle domande dei procuratori, ma ha fatto chiaramente presente un principio guida: «Vi saranno argomenti a cui darò risposta, spiegando le ragioni della mia risposta, e argomenti a cui risponderò e illustrerò le motivazioni per cui ho scelto di non rispondere».

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Lo scorso 19 luglio luglio la corte d’assise d’appello di Caltanissetta ha confermato la condanna all’ergastolo per il boss mafioso, che ha scelto di non partecipare all’udienza tramite videocollegamento. Matteo Messina Denaro è il figlio del vecchio capomafia di Castelvetrano, Ciccio, storico alleato dei corleonesi di Totò Riina, ed era latitante dal 1993, quando in una lettera scritta alla fidanzata dell’epoca, Angela, dopo le stragi mafiose di Roma, Milano e Firenze, preannunciò l’inizio della sua vita da Primula Rossa.

«Sentirai parlare di me, mi dipingeranno come un diavolo, ma sono tutte falsità», scrisse, ovviamente facendo riferimento a come il suo nome sarebbe stato legato a omicidi. Tant’è che il capo mafioso è condannato all’ergastolo per decine di omicidi, tra i quali quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito strangolato e sciolto nell’acido dopo quasi due anni di prigionia, per le stragi del ’92, costate la vita ai giudici Falcone e Borsellino, e per gli attentati del ’93 a Milano, Firenze e Roma. Era l’ultimo boss mafioso ancora ricercato, per cui adesso possiamo ritenere concluso uno dei periodi più bui dell’Italia. Ma non dimentichiamolo.

Il lungo interrogatorio di Matteo Messina Denaro

Lui non sarà mai un pentito, afferma Matteo Messina Denaro nell’interrogatorio a cui è stato sottoposto il 13 febbraio, scegliendo di non collaborare con la giustizia. «Io non le faccio queste cose», ha detto, come emerge dalle risposte che ha dato ai magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Palermo. «Qualora ce le avessi, non le darei mai, non ha senso per il mio tipo di mentalità», ha aggiunto facendo riferimento a eventuali documentazioni o altre cose nascoste.

Nel corso dell’interrogatorio gli è stato anche chiesto il rapporto con il collaboratore Francesco Geraci, gioielliere di Castelvetrano che fece ritrovare alcuni gioielli di Totò Riina. I due erano amici d’infanzia, sapeva dove abitava, ma non era a conoscenza della sua morte:

Pm: E come sapeva che abitava lì a Bologna?

MMD: Tramite strade mie, è ovvio, sto dicendo pure via e numero.

Pm: E quali erano queste “strade sue”?

MMD: Allora, strade mie, se lei mi vuole portare a dire che era qualcuno dello Stato…

Pm: No, io non la voglio portare a dire niente, io faccio…

Pm2: Questo lo abbiamo capito, noi avremmo tante domande, ma la stiamo ascoltando, perché tanto, se io le chiedo delle cose, lei non mi risponde, quindi…

MMD: No, rispondo alle cose…

Pm1: Però noi le domande gliele facciamo lo stesso, quindi quali erano…

MMD: Sì, io preferisco…

Pm1: queste “strade” quali erano?

MMD: Allora le strade che lo hanno detto a me, ovviamente non ve lo posso dire, perché significa che usciamo da qua ed andate ad arrestare persone ed io non le faccio queste cose

Su Bernardo Provenzano, dice di non averlo mai conosciuto «visivamente, ma sapevo chi era, ci mancherebbe». «Quando si fa un certo tipo di vita, poi arrivato ad un dato momento ci dobbiamo incontrare, perché io latitante accusato di mafia, lui latitante accusato di mafia, dove si va?». Ricorda anche di avergli chiesto dei favori, sottolineando però che non erano omicidi.

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Aggiunge: «Su di me è da 30 anni che travisano, ma non che travisano, voglio dire, sempre volutamente, anche perché poi diventava: tutto quello che c’era lo gestivo io, lo facevo io… io cercavo di fare riavere dei soldi ad un amico mio, paesano mio, Grigoli Giuseppe, ché glieli avevano rubati. Siccome io a questo di Ribera non lo conoscevo, mi sono rivolto a lui».

«Sono un latitante e lui era pure latitante e quindi i canali li conosciamo, non c’è bisogno di essere affiliato. Se io cerco una persona normale, mi viene difficile, ma se cerco un latitante come me, ci troviamo».

Interessante è anche un commento di Matteo Messina Denaro, che è più una critica: «Non voglio fare né il superuomo e nemmeno arrogante: voi mi avete preso per la malattia, senza la malattia non mi prendevate». E purtroppo, constatati i 30 anni di latitanza, non possiamo dargli torto.

«Telefonini non ne avevo, non avevo niente e non ne avevo per davvero, perché sapevo che appena nasceva un telefonino – anche che l’arresto non è stato per il telefonino, il telefonino lo usavo per 30 secondi – Procuratore io fissi: “Se mi metto con la modernità, vado a sbattere in un 3×2”, anche perché la nostra generazione non è che aveva il telefonino da giovane, quindi sapevamo vivere anche senza il telefonino».

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Nell’interrogatorio, Matteo Messina Denaro parla anche di come ha preso l’identità di Andrea Bonafede:

«Qua sono nei guai e allora che cosa faccio? Io avevo l’amicizia con Andrea Bonafede, un’amicizia però remota perché suo padre lavorava da noi, da mio padre e poi mio padre era amico di suo zio, lui aveva un altro zio indiziato mafioso condannato per mafia. Allora lo vado a trovare e gli dico, senti – lui nemmeno mi ha riconosciuto all’inizio – sono combinato in questo modo, tu mi puoi aiutare o mi vuoi aiutare? Sto morendo.

Lui mi dice, certo che ti aiuto. Allora io dissi, alt però devi sapere a cosa vai incontro perché nel caso in cui a me finisce male anche se muoio tu sarai sempre arrestato perché poi lo capiscono anche da morto che sono io, dice Bonafaede, che fa non ti aiuto? Non riuscirei a dirti no.

L’ indomani abbiamo preso un appuntamento perché io ci sono andato al posto di lavoro anche perché se ci andavo a casa mi arrestavate perché c’era la telecamera che guardava a casa sua…io sapevo di tutte le telecamere che vi erano a Castelvetrano e Campobello, le conoscevo e avevo chi mi riferiva.

Comunque, io avevo bisogno del documento ma non quello suo, farmelo fotocopiare e poi me lo facevo io il documento, l’unica cosa originale invece che volevo era la tessera sanitaria perché la tessera sanitaria io non riuscivo a farla e siccome in ospedale vogliono l’originale allora lui fece la fotocopia e se la tenne lui, tanto gli dissi che se ti bisogna vieni e te la do, io invece avevo continuamente bisogno di sta tessera sanitaria. Poi invece la patente e la tessera li feci io».

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