Troppo spesso, in Italia, si torna a discutere di aborto, e quasi mai in termini positivi. Le donne che decidono di ricorrere alla IVG (Interruzione Volontaria di Gravidanza) sono spesso oggetto di polemiche che ritornano periodicamente sui media con titoloni in prima pagina e servizi lacrimevoli, con fazioni opposte che si litigano il tempo di un intervento in tv, con apocalittici e integrati (per dirla con Eco) chiamati in causa ogni volta a dire la loro così che ognuno possa veder rappresentata la propria opinione, la propria posizione.
Se in Italia esiste un rapporto complicato con questo tema è pur vero che molto spesso sono le stesse istituzioni, come in questo caso, a far sì che questo rapporto si deteriori sempre più arrivando quasi ad essere una mera facciata, dietro la quasi si nascondono vuoti normativi e fatti assurdi.
Il fatto
La questione dell’aborto, e più nello specifico della sepoltura successiva a questo, torna alla ribalta quando il 28 settembre un post su un comunissimo profilo Facebook diventa virale.
A scriverlo è Marta L., una donna che come tante in Italia ha deciso di ricorrere all’aborto. Su Facebook racconta una scoperta agghiacciante. Le viene comunicato che il feto è stato seppellito, con il suo nome. Suo, cioè “di lei”. Della mamma. Della donna.
Nella sua piccola indagine personale Marta scopre che quanto fino a quel momento aveva soltanto sentito dire è un’agghiacciante realtà: il suo non è un caso isolato, infatti, ma a Roma insieme al suo molti altri nomi di donne sono affissi a delle croci di legno che coprono le sepolture dei feti o prodotti del concepimento dopo aver deciso di ricorrere all’aborto.
La legge
Come chiarisce la stessa Marta L. dopo la sua piccola indagine personale, in materia di seppellimenti successivi ad aborto vige il Regolamento di Polizia Mortuaria del 1990 – in particolare l’art. 7 – che distingue tre possibili diverse situazioni:
- bimbi nati morti, dopo le 28 settimane, per i quali la sepoltura avviene sempre
- “prodotti abortivi”, ovvero quelli di (presunta) età di gestazione tra le 20 e 28 settimane, per i quali è previsto l’interramento in campo comune con permessi rilasciati dalla sanità locale
- “prodotti del concepimento”, ovvero quelli di (presunta) età di gestazione inferiore alle 20 settimane, considerati rifiuti speciali ospedalieri in quanto non riconoscibili.
Negli ultimi due casi, la prassi vuole che per i prodotti abortivi e per i prodotti del concepimento sia presentata una domanda di seppellimento dai parenti o da chi per essi entro 24 ore dall’espulsione o estrazione.
Com’è possibile
Se la richiesta non avviene entro 24 ore, entra in gioco una complessa rete di associazioni religiose (che di fatto si sostituiscono al “chi per essi”), Comuni e aziende ospedaliere che, in pratica, gestiscono con dei veri e propri accordi la raccolta e la sepoltura dei feti. Non è una pratica illegale, anzi. Si può fare, lo dice la legge.
Quello che però non torna è una palese violazione della privacy delle donne coinvolte, e della legge 194 del 1978 (detta anche solo “legge 194” o “legge sull’aborto”) che in particolare all’articolo 21 vieta a chiunque ne sia venuto a conoscenza di rivelare l’identità di chi sceglie di ricorrere alle procedure e agli interventi previsti dalla stessa legge 194.
L’opinione (non richiesta, neanche necessaria ma sentita)
Per quanto si voglia far credere il contrario, qui il credo religioso c’entra ben poco. Sì, molto spesso le associazioni religiose e i movimenti pro-life si inseriscono in questi dibattiti per ribadire una loro visione della realtà. Condivisibile, o meno. Si tratta di una cosa che va avanti da anni, come mostra perfettamente l’ultima inchiesta sul tema de L’Espresso.
Quello che fa orrore, invece, è la risposta che viene data a Marta quando chiede che fine farà il feto: “Sono cose che non ti interessano”.
Sarebbe più opportuno dire che sono cose che interessano eccome, ma che vengono omesse. Quante donne sanno effettivamente che fine fanno i feti dopo l’aborto volontario? Quante donne sanno che hanno il diritto di chiedere una sepoltura, ma anche di negarla? Quante donne non sanno ancora che il feto è sepolto, a loro nome e cognome, con tanto di simbolo religioso in bella vista?
La disinformazione le fa da padrona. E a rimetterci sono, ancora una volta, le donne. Donne che si vedono su delle croci di legno nel bel mezzo di un cimitero, quando sono ancora vive e vegete. Come a dire “qui giace quello che LEI, proprio LEI (Marta, Francesca, Giulia, Sonia […]) ha voluto dar via”. La retorica del “l’hai fatto e ora te lo tieni” colpisce ancora.
Non si venga a dire che non è un modo per mettere pubblicamente alla gogna una donna. Va bene parlare di leggi, va bene che si sporgano denunce come nel caso dell’associazione Differenza Donna che giustamente ha deciso di muoversi e di prendere le difese di chiunque si renda conto di aver subito un’ingiustizia simile (secondo una stima, pare vi siano più di 30 cimiteri per feti in Italia).
Il problema è come sempre, prima di tutto, culturale. Sì, e prima era qui era tutta campagna. Ma concediamoci per una volta che questo potrebbe essere l’unico caso in cui una frase da bar un po’ ci ha preso.
Per problema culturale si vuole intendere qui che vi è ancora uno stigma sulle questioni che riguardano l’aborto. Che è praticamente come scoprire l’acqua calda, ma quanto è bello dirlo e sembrare dei sociologi?
Senza necessariamente impelagarsi nel grande mare dell’obiezione di coscienza (che pure meriterebbe fiumi di inchiostro o di pixel), si finisce sempre in una pozza di acqua stagnante fatta di cose non dette, di cose nascoste, di sotterfugi, di occhiatacce. Che altro non sono che la lettera scarlatta dei giorni nostri.
Perché la tua scelta è libera, il tuo corpo è tuo ma c’è sempre un terzo che avrà un’opinione che in fin dei conti ha una forza maggiore della tua. Però mi raccomando, guai a voler aprire un dibattito perché subito orde di timorati di Dio ti sbatteranno in faccia la libertà di parola, di credo, di espressione. La loro, non la tua. Come se non esistesse una sorta di libertà al negativo: la libertà di restare in silenzio, la libertà di non credere, la libertà di restare anonimi.
Forse è questo che manca tra le altre cose, a noi donne. La libertà di non, che non vuol dire una non-libertà, che non vuol dire zittirci. Vuol dire non doverci per forza giustificare, e non avere qualcuno che decida al posto nostro con la pretesa che un credo, un’opinione sia più forte e più valida della nostra.
I nonni, di qualche generazione fa, dicevano che quando si fa qualcosa bisogna “dar conto più al mondo che a Dio“. Nel 2020, le donne, vorrebbero e dovrebbero, dar conto solo a se stesse, sull’aborto, su come vestirsi, su come reagire al mondo. Lasciateci la libertà di non. Di non dar conto.