Peppino Impastato: 44 anni fa veniva ucciso dalla mafia

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In un’epoca in cui la piattaforma di streaming più popolare fra i giovani decide di portare sullo schermo un contenuto come 365 giorni, in cui la mafia italiana (e in particolare quella siciliana) viene romanticizzata al punto che le americane vorrebbero un “sicilian mafia boy“, la storia di Peppino Impastato andrebbe insegnata a scuola per far sì che nessuno pensi che la mafia sia una cosa buona, sexy e protettiva. Quarantaquattro anni fa Peppino Impastato veniva ucciso perché aveva deciso di non stare in silenzio, di «scrivere che la mafia è una montagna di merda».

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«Poteva come tanti scegliere e partite, invece lui decise di restare. Gli amici, la politica, la lotta del partito… Alle elezioni si era candidato. Diceva da vicino li avrebbe controllati, ma poi non ebbe tempo, perché venne ammazzato». Forse una delle canzoni e delle citazioni più belle per descrivere quello che Peppino Impastato ha fatto è proprio quella dei Cento Passi dei Modena City Ramblers, che racconta proprio la sua storia fino al 9 maggio del 1978, quando venne ucciso dalla mafia, da Cosa Nostra, lo stesso giorno in cui fu ritrovato il cadavere di Aldo Moro.

Oggi non sentiamo parlar spesso di mafia, qualcuno potrebbe anche pensare che non operi più. Tuttavia, «Cosa Nostra, pur risultando fortemente indebolita dall’azione quotidiana di magistratura e forze dell’ordine, risulta tuttora presente in ciascuna provincia siciliana, grazie ad un’intatta “capacità di rigenerazione”, ad un ampio consenso sociale ed alla sua capacità di intimidazione (“alla quale ancora corrisponde, di converso, il silenzio delle vittime”) ed è in grado di esercitare uno stringente controllo sui suoi associati», leggiamo nell’analisi della commissione antimafia.

Risale a qualche giorno fa «la notizia di un possibile attentato al Procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri». «Le mafie quando vogliono farsi sentire sanno benissimo che strumenti utilizzare per intimidire e minacciare. Queste minacce devono suonare come un campanello d’allarme per tutti noi che dobbiamo fare in modo di non lasciare mai soli tutti coloro che lottano per l’affermazione della legalità e della giustizia sociale», ha detto il Presidente di Avviso Pubblico, enti locali e Regioni contro mafie e corruzioni, Roberto Montà.

La mafia, quindi, la stessa mafia che quarantaquattro anni fa ha ucciso Peppino Impastato, la stessa mafia che ha ucciso tantissimi giudici fra cui Falcone e Borsellino, la stessa mafia che ha ucciso anche dei bambini, la stessa mafia che ha ucciso solo perché qualcuno si è rifiutato di sottomettersi, di star in silenzio, esiste ancora oggi e continua ad operare. Per questo motivo, oggi, è importante ricordare. Ricordare per rendersi conto di quanto grave sia la situazione.

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La storia di Peppino Impastato

Aveva 30 anni quando è stato ammazzato. Peppino era un giornalista, un conduttore radiofonico e un attivista, membro della Democrazia Proletaria. Ma prima di tutto questo, Peppino era colui che ha avuto il coraggio di denunciare le attività della sua stessa famiglia, legata a Cosa Nostra. Tutta la sua famiglia era legata a Cosa Nostra, ma lui ha scelto di non fingere di non vedere e ha scelto di rompere i rapporti con la famiglia per avviare un’attività politico-culturale di sinistra e, soprattutto, antimafia.

Ha iniziato con la fondazione del giornale L’idea socialista, per poi cominciare ad aderire a nuove formazioni comuniste come Il manifesto e Lotta Continua. Ha fondato poi Radio Aut, radio libera e autofinanziata in cui denunciava i crimini e gli affari dei mafiosi locali, in primis il successore di suo zio, che prima di essere ucciso era capomafia del paese. Ai tempi si cercava di controllare l’aeroporto di Punta Raisi, che sarebbe stato perfetto per i traffici internazionali di droga.

Tuttavia, cosa c’è da raccontare di Peppino Impastato? Della sua lotta, ne parlano tutti. Quello che ha fatto, quello che ha provato a fare, penso proprio che sia di opinione pubblica. Per questo vorrei spostare l’attenzione su una cosa che, quando l’ho scoperta, mi ha lasciata basita. Ovvero la stampa. Sapevate che la stampa, insieme alle forse dell’ordine, ritenevano che Peppino fosse morto mentre cercava di preparare un attentato terroristico che poi l’avrebbe ucciso? Secondo loro, quindi, si trattava di un suicidio.

Tra l’altro, neanche si parlò troppo della sua morte, in quanto, mentre in Sicilia veniva trovato il suo corpo, nella capitale veniva rinvenuto quello di Aldo Moro, ucciso dalle Brigate Rosse. Chi ne parlò, però, lo descrisse come un «ultrà di sinistra dilaniato dalla sua bomba sul binario», e poi come «figlio di un commerciante, studente fuori corso di filosofia, militante del Partito comunista marxista-lenista». In tutto l’articolo del Corriere della Sera, ai tempi primo quotidiano del paese, non viene neanche minimamente citata la mafia, o la lotta antimafia di Peppino Impastato.

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Felicia Bartolotta: “Chistu unn’è me figghiu!”

Chistu unn’è me figghiu.
Chisti un su li so manu
chista unn’è la so facci.

Sti quattro pizzudda di carni
un li fici iu.

Me figghiu era la vuci
chi gridava ’nta chiazza
eru lu rasolu ammulatu
di li so paroli

era la rabbia
era l’amuri
chi vulia nasciri
chi vulia crisciri.

Chistu era me figghiu
quannu era vivu,
quannu luttava cu tutti:

mafiusi, fascisti,
omini di panza
ca un vannu mancu un suordu
patri senza figghi
lupi senza pietà.

Parru cu iddu vivu
un sacciu parrari
cu li morti.

L’aspettu iornu e notti,
ora si grapi la porta
trasi, m’abbrazza,
lu chiamu, è nna so stanza
chi studìa, ora nesci,

ora torna, la facci
niura come la notti,
ma si ridi è lu suli
chi spunta pi la prima vota,
lu suli picciriddu.

Chistu unn’è me figghiu.
Stu tabbutu chinu
di pizzudda di carni
unn’è di Pippinu.

Cca dintra ci sunnu
tutti li figghi
chi un puottiru nasciri
di n’autra Sicilia.

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Questo non è mio figlio. Queste non sono le sue mani, questo non è il suo volto. Questi brandelli di carne non li ho fatti io.

Mio figlio era la voce che gridava nella piazza, era il rasoio affilato delle sue parole, era la rabbia, era l’amore, che voleva nascere, che voleva crescere.

Questo era mio figlio quand’era vivo, quando lottava contro tutti: mafiosi, fascisti, uomini di panza che non valgono neppure un soldo, padri senza figli, lupi senza pietà.

Parlo con lui vivo, non so parlare con i morti.

L’aspetto giorno e notte, ora si apre la porta, entra, mi abbraccia, lo chiamo, è nella sua stanza a studiare, ora esce, ora torna, il viso buio come la notte, ma se ride è il sole che spunta per la prima volta, il sole bambino.

Questo non è mio figlio. Questa bara piena di brandelli di carne non è di Peppino.

Qui dentro ci sono tutti i figli non nati di un’altra Sicilia.

Chi lo ricorda oggi

Per questa commemorazione, il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, ha detto che «l’esperienza umana e culturale di Peppino Impastato è un invito a tutti a rifiutare i condizionamenti criminali. È un inno alla libertà, al recupero della dignità umana. La storia di Impastato ci ha insegnato, anche, a non smettere mai di cercare la verità, a lottare per ottenerla. Una verità che per troppo tempo è stata allontanata da un depistaggio ordito da pezzi dello Stato. Impastato pagò con la vita l’avere sfidato la mafia in un territorio in cui si era stabilito un sistema di relazioni tra apparati dello Stato e mafiosi che governavano la Sicilia».

Continua: «La sua figura rimane un punto di riferimento per quanti hanno scelto di schierarsi contro la mafia e i suoi legami con la politica, facendo scelte di rottura senza compromessi. Il recupero del Casolare dove fu ucciso è un ulteriore contributo alla gratitudine e alla ammirazione da parte di tutti e uno stimolo anche di conoscenza dell’impegno per i diritti delle future generazioni».

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Erasmo Palazzotto, deputato del PD: «Peppino Impastato ha raccontato la mafia nella sua Cinisi quando nessuno aveva il coraggio di nominarla. Irrideva i mafiosi, li ridicolizzava minando alla base il loro potere. Per questo l’hanno ucciso, perché stava insegnando ai siciliani a non avere paura».

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