Troppe cose stanno succedendo, troppe cose non possono venire ignorate.
Un aspetto che risale al 1945. Auschwitz. Che cosa ha in comune con la nostra attualità? Nomino qualche Stato del mondo: Venezuela, Stati Uniti, Brasile, Turchia, e anche l’Italia. Solo per citarne alcuni (anche se anche altri Stati andrebbero nominati; non basterebbe l’intera pagina di questo articolo).
Immaginate interi magazzini,
nel gelo,
che contengono migliaia, se non milioni, di persone. Portate lì a morire.
Hanno in comune tutto questo; in che modo? vi chiederete voi. Continuate a leggere l’articolo.
Auschwitz: per quale motivo molte persone sono state condannate alla morte?
Per essere nate sotto un’etichetta, arbitraria, imposta dall’alto. Spesso quell’etichetta indica una discordanza di opinioni, può designare anche il fatto di essere nati in una particolare etnia, oppure un orientamento sessuale diverso dai canoni; e allora perché? Perché andare appresso a quest’idea secondo il quale tutti quelli che vengono denominati “diversi” sono condannati a morire?
Ancora non ha risposta. Quello che sappiamo in merito a questa faccenda è solo una: un numero enorme di persone è morta, e muore tuttora, per questa risposta che manca.
E che cosa succede quando manca una risposta cardine di un concetto così importante?
Succede che il primo che passa gli assegna la sua definizione, molto spesso intrisa di bias cognitivi che ricalcano l’esperienza di vita di quella persona (soggettiva per definizione).
Questo è quello che è successo durante il periodo nazista, e questo è quello che sta succedendo negli Stati citati all’inizio dell’articolo. Sebbene non ci siano magazzini pieni di persone condannate a morire, la mentalità rimane pressoché la stessa, in molte persone.
“se vengono da noi, pur sapendo che i porti sono chiusi, è giusto che muoiano in mare!”,
“costruiamo un muro per difenderci da quelli che vogliono entrare nei nostri confini!”,
“prima noi, poi loro!”,
“vogliamo l’indipendenza, degli altri non ci interessa niente!”,
“alcune morti sono giustificate!”,
“le elezioni sono state truccate!”,
“assaltiamo il governo per difendere la democrazia!”.
Tutto questo dimostra che non ci ha insegnato nulla il 1945, Auschwitz. Non abbiamo imparato la lezione più importante: l’odio non porta mai a nulla, se non a violenza.
Non risolve nulla.
Laddove il dialogo non arriva, si inizia ad odiare. Ed è un peccato, perché mediante il dialogo diplomatico si potrebbe risolvere tutto quanto, ma a quanto pare per molti non è così. Molti preferiscono l’odio piuttosto che il dialogo diplomatico e costruttivo.
Per questo, se davvero vogliamo lasciarci questo passato violento alle spalle, dovremmo tutti impegnarci (seppur nel nostro piccolo) a portare avanti gli ideali di diplomazia. Perché pure le sfide quotidiane, pure i litigi, le discussioni accese che si hanno nel nostro quotidiano, per quanto piccole ed insignificanti siano nel panorama globale, se ben trattate possono mettere i mattoncini per costruire una società nuova, basata sul dialogo e non più sull’odio più becero. Perché siamo ancora in tempo per rimediare agli errori dell’umanità dei secoli scorsi.
Possiamo ancora togliere una volta per tutte il “non” nel titolo, e farlo diventare invece “che cosa ci ha insegnato Auschwitz”.
Ma tutto dipende da noi.
Concludo citando le parole di un illustre persona che ha vissuto nei magazzini al gelo:
“Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.”
–Primo Levi.