Recensione dell’ultima stagione di You: un addio tra alti e bassi

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[In questo articolo sono presenti spoiler dell’ultima stagione di You. Se ancora non l’avete vista e non volete rovinarvi il finale dopo ormai 7 anni, non leggete l’articolo!]

La serie You, creata da Greg Berlanti e Sera Gamble, ha chiuso il suo lungo viaggio con l’ultima stagione disponibile su Netflix. Lanciata nel 2018, You è diventata velocemente un fenomeno culturale grazie al carisma oscuro di Penn Badgley nel ruolo di Joe Goldberg, il libraio-stalker diventato serial killer. Nel cast finale ritroviamo anche Charlotte Ritchie (Kate), Tilly Keeper (Lady Phoebe), e nuovi personaggi che hanno accompagnato l’ultima folle corsa di Joe. Dopo anni di ossessioni, identità false e omicidi, la serie si proponeva di chiudere il cerchio, ma il risultato è, a tratti, un po’ altalenante.

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Onestissima recensione dell’ultima stagione di You

Recitazione e colonna sonora: due punti di forza

Partiamo dai meriti: l’interpretazione di Penn Badgley è stata straordinaria. Riesce ancora una volta a bilanciare in modo inquietante fascino e repulsione, costruendo un personaggio profondamente disturbato senza mai cadere nell’auto-parodia. La scena in cui rincorre Bronte: da brividi. In generale tutto l’ultimo episodio è stato magnificamente interpretato. Anche Charlotte Ritchie, nei panni di Kate, offre una performance solida e credibile, regalando al pubblico momenti intensi soprattutto verso il finale di stagione. E almeno una citazione la merita anche Anna Camp, che interpreta entrambe le gemelle e lo fa in modo maestrale.

Un altro elemento di pregio è sicuramente la soundtrack: curata e mai invadente, accompagna perfettamente le atmosfere mutevoli della storia, capace di passare da toni cupi a momenti più surreali senza stonare mai. Happier Than Ever nel momento di realizzazione, in quello in cui Bronte si sveglia e si rende conto che non può amare un assassino che ha ucciso donne e uomini e non è per niente pentito, è stato davvero un tocco di classe. Così come anche Creep che ha accompagnato l’ultima scena della serie, di cui parleremo a breve.

Un inizio debole: troppa attesa, poca sostanza

Nonostante l’entusiasmo iniziale, bisogna ammettere che i primi episodi sono scritti male. La narrazione si trascina tra misteri forzati e intrighi sociali poco interessanti, sprecando tempo in una manfrina che poteva essere drasticamente accorciata. Sì, abbiamo avuto modo di conoscere Bronte (e i suoi diecimila cambi di idea nonostante abbiamo lei stessa stalkerizzato Joe per 3 anni e abbia quindi avuto modo di vedere di cos’è stato capace) e magari neanche ci interessava troppo un nuovo personaggio e l’ennesimo flirt che sapevamo tutti come sarebbe finito, però devo ammettere di essermi letteralmente addormentata e di averlo dovuto vedere una seconda volta.

Al posto della manfrina iniziale, ad esempio, avrebbero potuto portarci nel vivo del processo legale contro Joe Golberg: un processo pubblico, con le foto delle sue vittime o i loro familiari a testimoniare, uno dopo l’altro, inchiodandolo alle sue responsabilità. Sarebbe stato un modo drammaticamente potente di mostrare la resa dei conti che la serie aveva costruito in cinque stagioni. Soprattutto considerando come di tutti quei personaggi forti che abbiamo avuto modo di conoscere, ne abbiamo visti tornare troppo pochi. Non nego che mi sarebbe tanto piaciuto vedere il personaggio di Jenna Ortega, ma evidentemente è troppo impegnata con altre riprese.

Le incongruenze che fanno storcere il naso

Anche sul piano della verosimiglianza, ci sono scivoloni notevoli. Ad esempio, Kate, dopo essere stata sparata e letteralmente lasciata morire in un incendio, sembra riprendersi come se nulla fosse, praticamente indenne da un attacco gravissimo con solo una piccola bruciatura sul braccio. Com’è successo? Allo stesso modo, Bronte, introdotta come una presenza fondamentale, sembra una sopravvissuta immortale, sempre pronta a tornare in scena come se non le fosse mai successo nulla: sparata anche lei, con una caviglia rotta, picchiata, annegata… ma comunque ha le forze di alzarsi e tenere a bada Joe Golberg. Sembra un po’ irreale, onestamente, per quanto sia felice che entrambi i personaggi siano sopravvissuti.

I discorsi finali e quello che poteva essere

Onestamente ho apprezzato entrambi i discorsi finali, sia quello di Bronte (e ammetto di aver pianto non poco, ero letteralmente in lacrime singhiozzando perché io amo quando la giustizia fa il suo corso) che quello di Joe Golberg, accusatori ma in modo diverso l’un dall’altro. Iniziamo da quello di Bronte, che voglio proprio riportare qui:

«Alla fine, Joe Golberg è stato costretto a vedere tutto se stesso. Il processo è stato complicato, le prove raccapriccianti, e la verità innegabile. […] Una cosa è certa: Joe Goldberg non tornerà mai più libero.

Senza più Joe, abbiamo tutte dovuto elaborare il suo impatto su di noi.

Nadia è tornata a scrivere a insegnare, usa i suoi doni per aiutare altre donne ad affrontare i propri danni.

[…]

Dopo essere sopravvissuta a quello che Il Post ha definito in modo pigro e impreciso “L’inferno di Bronte”, Kate Lockwood è rinata. Indossa le sue cicatrice come un simbolo, non di orgoglio, di penitenza. […]

Con Joe dietro le sbarre, Marienne Bellamy ha smesso di aver paura di esporsi. Il mondo vede il suo talento, la ama.

Un giorno, Henry Goldberg chiederà a qualcuno di amarlo, di fidarsi nel fatto che non corre rischi nel farlo, non perché ha il sangue del padre. Lui dovrà solo decidere che tipo di uomo vorrà essere.

Non ci è voluto molto per eliminare i contributi di Joe dal libro di Beck. E la nuova versione corretta è più popolare, più elogiata, più sferzante, più imperfetta. Più Beck.

Ma come moltissimi altri, lei comunque non avrà la possibilità di fare ciò che voleva fare della sua vita. Joe li ha privati di questo. In loro onore, noi viviamo al massimo le nostre.

Joe si sbagliava. La mia vita non si riduce a un prima e un dopo di lui. Ogni giorno che passa, lui rimpicciolisce. Alla fine, sarà solo uno stronzo che ho frequentato. Io ancora non ho alcuna idea di chi voglio essere. Ma non vedo l’ora di scoprirlo.

In poche frasi, la narrazione riesce a spostare il centro del racconto: non più Joe Goldberg e il suo ego malato, ma le vite delle vittime, quelle che sono sopravvissute e quelle che non hanno avuto quella possibilità. Quando Bronte racconta la rinascita di personaggi come Nadia, Kate, Marienne e Henry, ci ricorda che l’impatto della violenza non si cancella facilmente: resta sotto la pelle, nelle paure quotidiane, nei sogni spezzati. Eppure la serie sottolinea un concetto potente: non bisogna lasciarsi definire da chi ci ha fatto del male.

Queste parole hanno un’eco fortissima anche nella realtà italiana di oggi, dove purtroppo il fenomeno dei femminicidi è ancora tragicamente presente. In un paese in cui ogni anno decine di donne vengono uccise da uomini che dicevano di amarle, il discorso di Bronte suona come un monito e un invito: riconoscere la violenza, elaborarla, ma soprattutto restituire dignità e centralità alle vittime. Non è la storia di Joe Golberg che deve sopravvivere. È la storia di chi, nonostante tutto, continua a vivere.

Inoltre, quando Bronte afferma che “alla fine sarà solo uno stronzo che ho frequentato“, offre una visione terapeutica e fondamentale: i carnefici non devono restare giganti nella memoria di chi hanno ferito. Devono perdere potere, ridursi alla loro reale dimensione: quella di codardi che si sono nutriti della sofferenza altrui.

In un’epoca in cui, anche sui media, i responsabili di femminicidi vengono spesso raccontati come “ex gelosi”, “padri disperati”, “uomini fragili”, You invece fa una scelta chiara e politica: rifiutare ogni forma di umanizzazione romantica del violento. È un messaggio importante e, pur parlando di un personaggio immaginario, risuona forte e necessario nel nostro mondo reale.

Detto ciò, sarebbe stato molto più soddisfacente se a consegnare Joe alla giustizia fossero stati alcuni dei sopravvissuti delle stagioni precedenti – magari personaggi come Ellie – invece di affidare il compito a una sconosciuta introdotta in extremis, nonostante questa sconosciuta è legata proprio a Beck, la prima fra tutte. Sarebbe stato un modo più coerente e potente per chiudere il cerchio narrativo e rendere giustizia a chi aveva davvero sofferto per mano sua. Ma, come scritto prima, probabilmente Jenna Ortega, che interpreta Ellie, è molto impegnata con altri progetti.

Passando al secondo discorso, quello di Joe Golberg, c’è qualcosa che mi è piaciuto particolarmente. In primis, vederlo solo dietro le sbarre dove non può ferire neanche se stesso. Sono anche felice che non lo abbiano fatto pentire: fino all’ultimo lui parla di amore, parla di solitudine, resta in un certo senso fedele al se assassino. Non si vergogna di quello che ha fatto, come non se n’è mai vergognato. Ed è questa la realtà che troppo spesso si vive: i carnefici non sono pentiti. Forse sono pentiti di essersi fatti arrestare, ma di certo non di aver ucciso. Pensiamo a persone come Filippo Turetta, come Alessandro Impagnatiello, come Mark Samson.

Ma il messaggio fondamentale, a parere mio, è quello in cui parla delle lettere che riceve dalle “ammiratrici” (una triste realtà, come si può vedere dai fratelli Bianchi che hanno ucciso Willy Monteiro): «Ah, sì. Un’altra fan. Perché io sono in gabbia, quando queste pazze mi scrivono tutte le cose depravate che vogliono che faccia loro? Forse noi abbiamo un problema come società. Forse dovremmo aggiustare quello che c’è di rotto in noi. Forse il problema non sono io. Forse sei tu». E così si conclude.

Cosa ci lascia quest’ultima frase? Quel “tu” (che in inglese è You, perciò il nome stesso della serie) ad effetto potrebbero proprio essere quelle fan pazze che riescono a idolatrare un personaggio di una serie tv, dallo stesso Joe Golberg all’ormai preistorico Tate Langdon in American Horror Story o lo stesso Jeffrey Dahmer, interpretato sempre da Evan Peters, che è chiaramente disadattato, che è un serial killer, uno stupratore, uno stalker, una persona cattiva, ma è di bell’aspetto. Lo abbiamo visto anche con il ragazzo che ha investito una madre e sua figlia, uccidendole, ma anche con Stefano Argentino, che per diversi ragazzi conosciuti come redpillati è passato per il povero ragazzo che si è stancato di essere rifiutato.

Il problema della nostra società è che troppo spesso siamo attratti dall’estetica del male, incapaci di vedere oltre l’aspetto fisico o il carisma superficiale di chi compie atrocità. Il messaggio finale di You è uno schiaffo necessario: non dobbiamo più romanticizzare i mostri (un saluto al film polacco 365 giorni). Non dobbiamo più scrivere lettere d’amore ai carnefici, né creare idoli da chi ha distrutto vite. Non è “sexy” essere uno stalker, non è “affascinante” essere un assassino, non è “ribelle” essere un violentatore. È solo orrendo, è solo codardo.

Joe Goldberg, come Filippo Turetta, Alessandro Impagnatiello, Mark Samson, i fratelli Bianchi, e purtroppo tanti altri ancora nella cronaca italiana e internazionale, non sono eroi maledetti: sono solo persone che hanno scelto consapevolmente di togliere vita, libertà e felicità agli altri. E il fatto che, ancora oggi, una parte del pubblico trovi “affascinanti” o “eroi” questi soggetti, dimostra quanto lavoro c’è ancora da fare per cambiare la nostra cultura.

You non ci chiede solo di giudicare Joe Golberg: ci chiede di guardarci allo specchio e chiederci quante volte, consapevolmente o meno, abbiamo anche noi contribuito a glorificare chi avrebbe solo dovuto essere dimenticato. Questa serie non finisce solo con una condanna verso Joe Golberg, ma con una chiamata alla responsabilità per tutti noi.

L’ultima stagione di You chiude in modo dignitoso, ma senza la brillantezza che aveva contraddistinto i momenti migliori della serie. Ottima recitazione, colonna sonora efficace e un messaggio finale intelligente non riescono a compensare completamente una prima parte troppo lenta e alcune scelte narrative poco credibili. Il merito più grande resta quella frase finale: un monito a non romanticizzare chi distrugge vite, solo perché sa sorridere bene davanti a una telecamera.

Giulia, 26 anni, laureata in Filologia Italiana con una tesi sull'italiano standard e neostandard, "paladina delle cause perse" e studentessa di Didattica dell'Italiano Lingua non materna. Presidente di ESN Perugia e volontaria di Univox. Amo scrivere, leggere, guardare serie tv e anime, i gatti e seguire le giuste polemiche. Instagram: @murderskitty

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