Non si tratta di “regalare la laurea”, ma di rispettare i propri studenti

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Io forse lo ripeterò fino alla mia morte, ma a uccidere gli studenti non è il programma di studi troppo lungo con nozioni su nozioni che molto probabilmente dimenticheranno subito dopo l’esame, quanto più il sentirsi un fallimento, o ancora di più i docenti che finiscono per umiliare i propri studenti (e i casi non sono pochi, proprio qualche giorno fa abbiamo parlato di quello di Ester Barrale, siciliana in un’università del nord) portandoli a non voler più sostenere esami o che, comunque, scavano cicatrici profonde nella loro autostima creando anche dei veri e propri traumi.

Purtroppo storie di docenti che vessano i propri studenti non sono per niente rare, solo che se n’è parlato sempre troppo poco. “È una vergogna per me interrogarti” o ancora “Ma gli altri esami come vanno? Male, vero?” o ancora “Chi è il tuo relatore? Io non ti farò laureare mai“. Ci dicono che “è normale“, che “si è sempre fatto così“. Se lo vai a raccontare a un adulto che ha frequentato l’università magari ti racconterà la sua esperienza dicendo che anche lui ci è passato, dando per scontato che se c’è passato lui, devi passarci anche tu. E forse è anche per questo che molti docenti e assistenti sfogano le proprie frustrazioni sugli studenti.

Tuttavia, la nostra non è una generazione che sta in silenzio, non è una generazione inetta che accetta di semplicemente assistere ai danni che hanno fatto le precedenti. Noi abbiamo deciso di non accettare più vessazioni e umiliazioni e, dopo aver pianto per un bel po’, passiamo alla fase di rabbia, in cui denunciamo online quello che ci è successo e chiediamo una mano alle associazioni studentesche. Noi non lasciamo semplicemente che ci traumatizzino. Non più. Io sento ancora sulla mia pelle tutte le parole delle docenti disumane che ho incontrato in triennale, quando ero appena uscita dal liceo e sono stata scaraventata in un mondo che non era come mi avevano detto.

L’università è meglio perché decidi tu quando dare gli esami“, ti dicono. Quello che però non aggiungono è che c’è uno, massimo due appelli solo a gennaio, febbraio, giugno, luglio e settembre, quindi se devi sostenere in un anno 60 CFU, per non andare fuoricorso devi dare anche esami a pochi giorni di distanza, per cui non è esattamente decidi tu quando dare gli esami. Decidi tu solo in base alle date che qualcuno stabilisce per te, nei mesi che non decidi tu (e quindi facciamolo un esame il 30 luglio in una città del sud con 35 gradi e seduti nei corridoi per terra per ore perché non ci sono neanche abbastanza sedie).

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Il rettore Salvatore Cuzzocrea, presidente della Conferenza dei rettori italiani, è sembrato, dalla sua intervista con il Corriere della Sera mentre veniva interrogato dal giornalista in merito all’appello della studentessa Emma Ruzzon che ha parlato di merito e salute mentale, abbastanza tranquillo e persino gentile. Non sembra una persona che vuole abbandonare gli studenti, ma allo stesso tempo non sembra neanche vivere al 100% l’università come studente. Perché i problemi dell’università italiana sono tanti, e soprattutto lo sportello psicologico con massimo cinque sedute e mesi e mesi di attesa, non può essere l’unica soluzione.

Università: la risposta del rettore Salvatore Cuzzocrea alla studentessa Emma Ruzzon

«Il grido di dolore dei ragazzi va ascoltato. Dobbiamo aiutarli a realizzare i loro sogni sostenendoli nei momenti di difficoltà. Ma non possiamo regalare loro la laurea», ha detto nell’intervista il rettore Salvatore Cuzzocrea. E certo, questo lo sappiamo. Io in genere parlo sempre della mia esperienza Erasmus, perché è quella che mi ha fatto maturare un pensiero: il problema non sono io, ma è l’università italiana. Ho assistito, a Zadar, a una docente che bocciava la sua studentessa, dopo che lei non aveva risposto alle domande. Era dispiaciuta, le ha detto in cosa migliorare e cosa studiare meglio, e poi l’ha invitata a presentarsi al prossimo appello.

In Italia, invece, mi è capitato di essere insultata o di assistere a vessazioni da parte di docenti. Una è capitata proprio nel mio ultimo esame online. La studentessa aveva risposto bene, tant’è che avevo pensato “Ah, verrà sicuramente promossa“. Ma al momento del voto lui la boccia, e qui lei ha un crollo mentale (son passati ormai due anni, ma lo ricordo alla perfezione per quanto mi ha sconvolta): «Professore, ma come devo fare per farmi promuovere? Questo è il mio ultimo esame, ho la tesi pronta e sto rimandando la laurea da un anno solo per questo esame».

Lo sfogo di una studentessa che davvero ha dovuto rimandare la laurea con tutto quello che comporta (pagare tasse in più, in primis, ma soprattutto tanto stress). Lo sfogo di una studentessa a un passo dalla fine, ma che ha trovato davanti un muro, con un professore che, invece di aiutarla a scalarlo, lo ha reso sempre più alto. «Mi dica chi è il suo relatore, io non la faccio laureare!», ha urlato. Sì, ha proprio urlato. Lei con timidezza glielo ha detto.

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Rettore Salvatore Cuzzocrea
Fonte foto: Il Corriere della Sera

Non so se quella ragazza sia riuscita a superare l’esame in seguito. Ma quando ho dedicato la mia tesi agli studenti che soffrono di ansia e che si son suicidati anche a causa dell’università, ho pensato molto anche a lei. Tornando al rettore che evidentemente dovrebbe essere consapevole delle vessazioni dei docenti verso gli studenti, ha detto di aver parlato con la studentessa e soprattutto ha citato il servizio di counseling psicologico attivato nei vari atenei. Peccato che non sia abbastanza.

Qualche settimana il CNSU ha evidenziato come il governo abbia tagliato ben 20 milioni di euro dal bonus psicologico, aggiungendo anche come a mancare siano proprio gli investimenti statali con cui sarà possibile assumere abbastanza professionisti facendo realmente funzionare i benedetti sportelli psicologici. «Chiediamo dei percorsi di prevenzione e l’installazione di sportelli di assistenza psicologica gratuiti in tutti gli atenei: deve essere il primo passo per migliorare il benessere degli studenti», aggiungono ancora nel post, e poi concludono: «Non siamo dei numeri. Finché non ci insegneranno che il nostro valore non si misura con un voto e che non siamo dei falliti, la scelta di togliersi la vita continuerà a non essere un caso isolato».

Il rettore dice anche qualcosa di giusto: «Sbagliare è normale. Bisogna imparare a cadere e rialzarsi», ma non è facile farlo quando sei letteralmente bombardato da articoli su eccellenze, e il fatto che lui stesso ritenga che «il merito è una cosa bella, non va percepito come un danno, anzi: serve a mettere tutti sulla stessa linea di partenza», fa un po’ ridere. Non partiamo tutti dalla stessa linea di partenza. Ci sono studenti che hanno l’affitto e le spese interamente pagate dai genitori, senza alcuna preoccupazione. Altri devono lavorare per pagare i propri studi. Ci sono studenti eccellenze alle università private, e altri che arrancano nelle pubbliche perché le segreterie sono peggio delle Poste.

«Penso che una parte di responsabilità dipenda anche dai modelli della società contemporanea che punta più sul successo facile dei tiktoker che sull’istruzione e il lavoro», aggiunge. Sì, più o meno. Forse perdere ore e ore sui libri e poi vedere adolescenti fare dei balletti su TikTok e alcune lanciare persino dei messaggi completamente sbagliato, fa un po’ indignare. Ma il problema è la cultura della fretta e della normalizzazione di sentirsi un fallimento. Non facciamo i boomer dando la colpa sempre ai social network.

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Fonte Pixabay

Dopo aver parlato di affitti (potrebbe interessarvi: Studenti in manifestazione a Perugia per i posti letto negati dall’Adisu), il giornalista fa notare al rettore che l’Italia è il penultimo Paese europeo per numero di giovani, e lui incolpa il «sistema di orientamento che va sicuramente migliorato». Sì. Insomma. C’è chi sbaglia indirizzo, chi viene costretto a iscriversi, ma anche chi molla perché non trova dei docenti appassionati del proprio mestiere. Se vai a lezione (frequenza obbligatoria completamente illegale) e trovi una professoressa che svogliatamente legge le slide, passa anche a te la voglia di studiare e di certo non ti appassioni alla sua materia.

Se poi ti presenti al suo esame e lei comincia a insultarti perché non sai a memoria ogni virgola del libro che, ovviamente, ha scritto lei e che hai pagato anche un occhio della testa (c’è anche chi vuole che lo porti all’esame per autografartelo), ti passa ancora di più la voglia di studiare. Lungi da me voler generalizzare. Ci sono professori molto appassionati che riescono a trasmettere l’amore per la propria materia, ma allo stesso tempo c’è chi si vanta di aver bocciato quattordici volte uno studente. E te lo dice alla prima lezione, il primo anno di università.

«Io penso che questa generazione debba uscire dalla rassegnazione e ritrovare la capacità e la voglia di mangiarsi il mondo», ha infine detto il rettore. Caro rettore, apprezziamo il tentativo, ma se siamo rassegnati è anche colpa della sua generazione, di quella dei docenti, di quella di chi ci ha cresciuti e che ci ha insegnato. Ma non mi sento di condividere completamente il pensiero. Noi siamo la generazione che lotta per il cambiamento. Il problema è che, mi permetta, voi il nostro cambiamento non lo volete proprio comprendere e soprattutto non lo accettate.

Università accessibile, gratuita e soprattutto umana. Siamo persone, non numeri di matricole. Non ci fate un regalo regalandoci la laurea, che altro non è che un pezzo di carta, ma ce lo fareste cominciando a vederci come studenti con un proprio cervello e delle proprie idee. L’università la inizi per passione, se poi la passione scompare non è a causa nostra, ma a causa di chi non sa fare il proprio lavoro. La dispersione scolastica e universitario non è una nostra responsabilità, ma vostra.

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