The Boys in the Band: 7 amici e un paio di drink

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Netflix ha aggiunto al suo catalogo una vera e propria gemma: The Boys in The Band. Un film che stupisce su diversi fronti, che è uno spaccato su un pezzo di storia che ci appartiene e che non dovremmo mai dimenticare.  Il lungometraggio nasce da un adattamento cinematografico della pièce teatrale omonima nata dalla penna del commediografo statunitense Mart Crowley, classe 1935 e recentemente scomparso.

La trama

La trama di The Boys in the Band è – apparentemente – semplice: in una serata newyorchese di fine anni ’60, Michael organizza una festa di compleanno nel suo appartamento in onore del suo amico Harold, invitando tutti i suoi amici più cari. Nonostante appaiano come profondamente diversi, un’unica cosa li accomuna: sono tutti omosessuali.
Sono fondamentalmente tre i grandi nodi attorno ai quali la trama ruota: l’intruso, la pioggia, il gioco.

L’intruso

Michael ha organizzato tutto alla perfezione. Si è recato a fare tutte le spese necessarie, ha preparato la cena, ha sistemato le luci e le sedie in terrazza. Eppure, qualcosa turba il suo equilibrio perfetto. Alan, una vecchia conoscenza di Michael risalente ai tempi del college, è in città e chiede a Michael di passare da lui per un drink. Michael inizialmente gentilmente declina, spiegando di avere degli ospiti, ma cede all’insistenza del vecchio amico che – promette – non resterà a lungo.

Michael allora cerca di tenere a bada l’esuberanza degli amici, spiegando che nonostante abbia accettato la sua omosessualità, ha paura a mostrare ad Alan quel lato della sua vita. Alan infatti appare spaesato dinnanzi ai comportamenti di quella comitiva a lui sconosciuta.

La pioggia

Sebbene siano poche le scene in The Boys in The Band che ruotano intorno a questo evento atmosferico improvviso, è di fondamentale importanza. La cena in terrazza infatti viene bruscamente interrotta da un violento acquazzone che costringe tutti a mettersi al riparo all’interno dell’appartamento, senza dar loro tregua per tutta la serata.

Il gioco

Complice l’alcool, Michael propone quindi un gioco. Ognuno dei presenti dovrà telefonare all’unica persona che hanno mai amato nella vita. Se si accetta la sfida si guadagna un punto, se l’altra persona risponde ed è proprio quella che si cerca, due punti. Se si confessa il proprio amore, cinque punti. Alan, l’intruso, viene quasi preso in ostaggio da Michael, che lo costringe ad assistere e infine anche a partecipare.

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Fonte: Twitter

Niente è come sembra

Gli animi si esasperano già ben prima della pioggia. Infatti tra gli uomini presenti alla festa sembra esserci qualcosa di nascosto, di soffocato, di represso. Tra battute, frecciatine, gelosie e veri e propri alterchi la festa aveva già preso una brutta piega. Tuttavia, è il gioco finale di Michael a mettere ulteriormente in crisi i presenti, che si vedono così costretti a mettersi a nudo, manifestando le loro sensibilità ed emozioni più profonde.

In The Boys in The Band si narrano così gli amori impossibili, difficili, mai dimenticati che inevitabilmente sono ostacolati dall’omosessualità dei protagonisti. L’anno in cui gli eventi si svolgono è il 1968, e non è un anno casuale: pochi mesi dopo ci saranno i moti di Stonewall, quando finalmente si comincerà a parlare di diritti per gli omosessuali in un’America che proibisce loro le più semplici forme di socializzazione (riunirsi, andare al bar, ballare insieme).

Il cast

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Fonte: Twitter

Il successo di critica e l’accoglienza più che positiva del pubblico non possono essere che il risultato del lavoro di casting in The Boys in the Band.

Si tratta di un’opera corale, in cui però spiccano volti molto noti come quelli di Matt Bomer (nei panni di Donald, l’intellettuale), Zachary Quinto (che interpreta il cinico ed enigmatico Harold), Jim Parsons (l’ambiguo Michael).

Quest’ultimo, infatti, tiene insieme tra loro i ruoli in una performance attoriale a dir poco eccellente. E’ difficile guardare il film senza farsi condizionare dal ruolo che ha reso famoso Parsons, ovvero quello di Sheldon nella sit-com The Big Bang Theory; altrettanto difficile è non avere la pelle d’oca nel vederlo calato in un ruolo drammatico così diverso da quello cui ci aveva abituati.

Zachary Quinto, dal canto suo, aggiunge un alone di mistero e di carisma al personaggio di Harold, adorato e odiato allo stesso tempo, che non sarebbe stato lo stesso se fosse stato qualcun altro ad interpretarlo.

Matt Bomer (Donald), tuttavia, agisce un po’ in sordina, talvolta passando inosservato se non fosse per qualche scambio sagace con Michael, in cui è ancora una volta Jim Parsons a condurre.

Nota a margine, di non poco conto: il cast è composto interamente da attori omosessuali così come era anche nelle intenzioni della pièce originale da cui è tratto il film.

Il DNA sociale

Netflix ha messo a disposizione, oltre al film, un vero e proprio making of del film intitolato: The Boys in the Band – something personal. Decisamente d’aiuto nel decifrare il film, questo speciale include anche un’intervista ai diversi membri del cast e al regista. In un commento hanno un impatto particolare le parole del protagonista Jim Parsons: “c’è un certo DNA sociale in quello che siamo oggi”.

Che senso avrebbe, altrimenti, riportare in vita una pièce di oltre cinquant’anni e che ha già avuto un remake cinematografico nel 1970 (Festa per il compleanno del caro amico Harold, regia di W. Friedkin)? Perché, oggi, la The Boys in the Band ha ancora tanto da dire. Chi ha vissuto sulla propria pelle quegli anni potrà sicuramente rivedervisi, le nuove generazioni invece si confrontano con la storia (e la Storia, con la esse maiuscola) come fosse un monito: se oggi siamo al punto in cui siamo è perché prima eravamo così.

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Fonte: Twitter

La Storia mette tutto in prospettiva. L’atmosfera del 1968 è ben resa non solo da una speciale attenzione per costumi e scenografie ma anche dai dialoghi che hanno luogo tra i protagonisti durante la festa.

Non vi sono ancora arcobaleni e orgoglio omosessuale, vi è invece un senso di vergogna, di autocommiserazione che ben si accosta a quella particolare epoca storica: i protagonisti di The Boys in the Band accettano quasi con fatica il loro essere gay, si nutrono di pregiudizi sulla comunità LGBT+ che oggi troveremmo fuori luogo. Una sorta di omofobia interiorizzata, diremmo con il linguaggio contemporaneo. Eppure, nel 1968, una persona omosessuale non era emarginata soltanto agli occhi della società, ma molto spesso il disprezzo proveniva da sé stessa.

“Se solo riuscissimo a non odiare noi stessi in modo così implacabile”

Sta tutto lì, il senso. In questa battuta pronunciata da Michael quando tutti hanno lasciato il suo appartamento tranne Donald, che si offre di confortarlo. Imparare a non odiarsi è un obiettivo che la comunità LGBT+ ha raggiunto con fatica, e in alcuni casi, non ha ancora raggiunto. Ecco perché The Boys in the Band non è solo un ritratto storiografico ma un film ancora attualissimo: se parafrasiamo all’inverso la frase di Michael, dobbiamo imparare ad amarci prima ancora di amare qualcun altro.

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