Un altro studente è stato ucciso dall’università e dalla pressione: il ministro della ricerca e dell’università deve svegliarsi

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Siamo a quattro. Quattro vittime in a malapena quattro mesi. Non possiamo più liquidare i suicidi degli studenti universitari come “vabbè ma avevano anche altri problemi“, non possiamo più accettare il silenzio di un ministero dell’Università e della Ricerca che si limita a rendere obbligatori gli sportelli psicologici come se non ci fosse un’attesa di settimane o mesi per fare semplicemente cinque incontri che non ti aiutano minimamente. Non possiamo più accettare un sistema che ci vede come semplici numeri di matricole e soprattutto non possiamo accettare una società che ci mette in costante competizione fra di noi. Non possiamo più accettare una singola vittima in più.

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Ogni volta è come la prima. Leggere di uno studente che si suicida distrugge una piccola parte di me, mi fa sentire come se avessi fallito in qualcosa, come se anche io avessi una colpa perché non sono riuscita a salvare quel ragazzo. Mi sento colpevole perché quelle anime potevano essere salvate, quelle persone potevano tornare a sorridere, quelli studenti avrebbero potuto capire, anche loro, che il problema non siamo noi che non riusciamo a superare o sostenere esami, che non siamo noi che finiamo in fuoricorso, ma proprio un’università che normalizza il non superare gli esami dopo anni di preparazione o il farsi trattare male da un docente perché “è sempre stato così“.

Ne ho parlato così tante volte che temo di essere ripetitiva, ma ogni volta che si suicida uno studente sento di dover scrivere, di dover urlare, di far sentire la mia voce e soprattutto le grida silenziose di quegli studenti che non sono riusciti a farsi ascoltare, o forse che non hanno voluto perché temevano il giudizio di una società che ha ancora residui delle generazioni precedenti che pretendevano che tutti dovessero essere perfetti, in salute e chi osava avvicinarsi a uno psicologo era un matto da evitare. Ogni volta che uno studente si toglie la vita e nella sua lettera d’addio parla dell’università, io capisco che c’è un serio problema nella nostra società e nella nostra università.

Lo capisco io, che sono una studentessa e nel mio piccolo posso solo limitarmi a sensibilizzare e a far sentire la mia voce, ma non lo comprende (o non lo vuole comprendere) il ministero dell’università e della ricerca che forse potrebbe essere l’unico a fare seriamente qualcosa? Non è normale stare male per un esame. Non è normale avere paura prima di sedersi a un appello. Non è normale essere bocciati perché si è meridionali. Non è normale essere insultati perché non si riesce a rispondere a una domanda su una nota a piè di pagina. Non è normale non riuscire a studiare o a dormire o a non vivere la propria vita a causa di ansia è depressione.

Non è normale e non va normalizzato solo perché ci sono passati gli stessi docenti. Non è normale e non siamo noi la generazione debole. Noi siamo la generazione che vuole dire basta, noi siamo la generazione che, al contrario delle precedenti, vuole mettere fine al loop di sofferenza e umiliazione perché non è normale. Noi siamo la generazione che davanti a un suicidio di uno studente vogliamo urlare che non è lui a essere un fallimento, non è lui ad aver fallito, che non si tratta di un romantico “castello di bugie“, ma è la società e il sistema a fallire.

Non siamo noi che dobbiamo cambiare, che dobbiamo essere più forti, che dobbiamo “capire” che è “normale” che un professore ci tratti male. È il sistema che deve essere rivoluzionato.

Un altro studente si è suicidato: è ora di dire basta!

Chi dice che devi laurearti a 21 anni precisi con lode? Chi dice che non devi essere mai bocciato e devi prendere tutti 30 agli esami? Chi dice che quando vieni bocciato è solo perché non hai studiato abbastanza, anche se hai studiato per mesi interi per un esame da 6 CFU? Chi dice che non vali niente se non hai una laurea? Chi dice che devi per forza frequentare l’università, e finirla in tempo a prescindere da tutto? Chi dice che non devi dormire di notte per studiare, anche quando lavori tutto il giorno? Chi dice che per avere una laurea devi per forza soffrire, altrimenti non te la meriti?

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Aveva 29 anni, era originario di Manduria e frequentava l’università a Chieti. Viveva con la sorella, che ha trovato il suo corpo ieri pomeriggio, tornando a casa. Quando i soccorsi sono arrivati, era troppo tardi. Lo studente era morto. Era stato ucciso da un sistema universitario e da una società che lo ha portato a mentire piuttosto che parlare chiaramente degli esami che non riusciva a sostenere. Era stato ucciso da quella pressione per il “rendimento universitario” e per gli “esami mai sostenuti“, come ha spiegato in 42 pagine di note.

Capite che non possiamo più accontentarci di un “sì ma si suicida anche per altro, non solo per l’università“? Se quattro studenti si suicidano in quattro mesi, e tutti loro hanno a che fare con bugie con esami non sostenuti, con presunti giorni di laurea, con sensazione di aver fallito nella propria vita a neanche 30 anni, evidentemente il problema non sono più “quelle altre cose” che potrebbero portarli al suicidio, ma è soprattutto una società che ci vuole perfetti, in salute, sempre al massimo delle energie e soprattutto felici di soffrire.

Non possiamo più accettare una singola altra vittima. Dobbiamo fare qualcosa e dobbiamo farlo al più presto perché la nostra generazione sta male, la nostra generazione è psicologicamente distrutta e nessuno sembra volerlo comprendere, soprattutto quando poi vedi narrazioni che parlano di “castelli di bugie” o di “problemi loro” (ovvero la salute mentale, quella che in Italia sembra essere ancora un tabù nonostante i dati dimostrino che siamo l’ultimo paese europeo per benessere mentale). Siamo una generazione che ha paura di fermarsi perché ci hanno insegnato che quando ti fermi qualcuno ti supera. Che se ti fermi, non puoi essere il migliore.

Siamo la generazione che ha paura di essere debole, di dormire, di piangere, di prenderci del tempo per noi stessi, perché se non studiamo, se non lavoriamo, se non facciamo qualcosa di produttivo, allora stiamo perdendo tempo, e perdere tempo non è concesso in una società che vuole che tu soffra costantemente per dimostrare che vali davvero qualcosa. Lucio Anneo Seneca, secoli e secoli fa, diceva che “omnia aliena sunt, tempus tantum nostrum est“, ovvero che solo il tempo ci appartiene, solo il tempo è nostro. E io vorrei che la mia generazione, come anche le precedenti e le successive, ricordino proprio questo.

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Ognuno ha i propri tempi. Ho i miei tempi per studiare, per capire quando iniziare l’università (perché in Italia c’è questa convinzione che devi iniziarla non appena finisci la scuola superiore, mentre all’estero è più che normale prenderti del tempo per lavorare, mettere soldi da parte, fare esperienze), per decidere quando sposarmi e quando avere dei figli (soprattutto se poi vivo sotto un governo che non approva il salario minimo che magari mi permetterebbe, oltre a procreare, anche di mantenere un figlio). Il tempo è mio, e decido io come gestirlo.

Puoi anche chiamarmi fuoricorso, fancazzista, perditempo, fallimento, ma perché la tua opinione deve valere più di quella che io ho su di me? Cari ragazzi, care ragazze, cari studenti, cari colleghi, voi valete. Voi siete importanti. Non lo è quella corona d’alloro che sarà appassita nel giro di un mese e non lo è quel pezzo di carta che testimonia che avete sofferto, e ne siete usciti. La vostra vita è importante, e lo è la vostra salute mentale. Ignorate qualsiasi persona voglia farvi credere il contrario, perché è evidente che, a sbagliare nella vita, sono loro. E noi voi.

Ministra Anna Maria Bernini, aspettiamo il suo intervento e la sua soluzione per salvarci, perché noi possiamo parlare e urlare quanto vogliamo. Possiamo sensibilizzare, andare nelle scuole e nelle università a far capire che non è colpa nostra. Ma l’unica che può fare qualcosa di concreto è lei. Si svegli.

Su Cup of Green Tea abbiamo una categoria dedicata a te, a voi, per ogni volta che non vi sentite all’altezza e avete bisogno di sentire che il problema non siete voi: Per te, studente.

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