Donne uccise per aver detto no: storie di matrimoni forzati

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Nella giornata contro la violenza sulle donne, voglio che si parli anche di quelle donne che sono state uccise per aver detto no, per essersi opposte a un futuro che era stato scelto per loro, ma che non andava bene. Per essersi opposte ai matrimoni forzati, che nel 2022 non possono essere più accettabili. Negli ultimi mesi si è parlato soprattutto del caso di Saman Abbas, della 18enne che è stata uccisa dalla sua stessa famiglia per essersi opposta alle nozze che i genitori avevano deciso per lei: Saman voleva essere libera, Saman voleva vivere. E così come lei, tantissime altre donne vittime della propria stessa famiglia.

Il matrimonio forzato o combinato è un’unione in cui una o entrambe le persone coinvolte, che potrebbero essere bambine (spesso matrimonio forzato e spose bambine vanno di pari passo) come adulti, vengono fatte sposare contro la propria volontà. In molti paesi vige la tradizione del matrimonio combinato, ma la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo stabilisce che «il matrimonio potrà essere concluso esclusivamente con il libero e pieno consenso dei futuri coniugi», e questa spesso non c’è. In quest’ultimo caso, a volte si ricorre alla violenza, la minaccia o, in casi ancora più gravi, all’omicidio.

Questa violenta tradizione risale all’antica Grecia o all’antica Roma, pensiamo ad esempio il rapimento di Persefone da parte di Ade, o di Dafne e Leucotoe da parte di Apollo, e di esempi ce ne sono davvero tantissimi. Dalla parte romana, invece, c’è il celebre ratto delle Sabine che permise a Romolo di fondare Roma. Tuttavia, per quanto fosse sbagliato, parliamo di un’epoca in cui le donne non avevano diritti ed erano considerate davvero come oggetto di scambio. Nel 2022, in un’epoca così avanzata, non possiamo permettere che barbarie del genere esistano ancora.

La storia di Saman Abbas

La storia di Saman Abbas comincia il 27 ottobre 2020, quando la ragazza si rivolge ai servizi sociali comunali per chiedere aiuto: lei non vuole sposarsi, né con suo cugino, né con nessun altro che le sia imposto dai genitori. Come le sue coetanee, vuole possedere la libertà di scegliere sulla propria vita e sul proprio futuro, e quindi viene accolta a novembre in un centro a Bologna. L’11 aprile, però, ritorna a casa. La sua scomparsa risale proprio alla fine di questo mese, e coincide con il ritorno della famiglia che, senza se e senza ma, mentre la figlia è scomparsa, decide di tornare in Pakistan, loro paese d’origine.

Sin dal principio gli indagati sono cinque: i genitori, uno zio e due cugini, questi ultimi poiché sono presenti in un video del 29 aprile in cui si vedono tre persone con un secchio, due pale e un piede di porco dirigersi nei campi dietro casa. I genitori e la famiglia ovviamente nega tutto, il padre, Shabbar Abbas, ha riferito a Il Resto del Carlino che la figlia è viva e si trova in Belgio, tuttavia loro non si fanno trovare, né in Pakistan né in Italia. Intanto, oltre a tutti gli affezionati della tragedia, a cercare Saman Abbas c’è il suo fidanzato, il ragazzo scelto da lei e con cui avrebbe voluto scappare.

La ragazza era tornata a casa ad aprile solo per avere nuovamente i suo documenti, ma «al mio arrivo a casa i miei genitori non mi hanno picchiata, ma si sono arrabbiati rimproverandomi di tutto quello che avevo fatto nei mesi scorsi come scappare in Belgio e andare in comunità. Per quanto riguarda i miei documenti, io li ho visti nell’armadio di mio padre, chiusi a chiave», aveva confessato la diciottenne al ragazzo. Saman Abbas aveva già detto al fidanzato di sentirsi in pericolo.

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Saman Abbas

Durante gli scorsi mesi poi è stato una continua ricerca dei familiari, uno zio fu arrestato in Francia, Danish Hasnain, che secondo il fratello di Saman l’avrebbe uccisa (al contrario, scagiona i genitori). Sempre il fratello minore ha raccontato di come il 30 aprile ci fosse stata una riunione per organizzare l’omicidio di Saman, e sembrerebbe che uno dei presenti avesse detto: «Io faccio piccoli pezzi e se volete la porto anch’io a Guastalla, e la buttiamo là, perché così non va bene».

Al momento dei cinque indagati solo la madre risulta ancora irreperibile (il padre è stato arrestato in Pakistan pochi giorni fa), mentre una soffiata ha indicato dove si troverebbero i resti della povera Saman Abbas, e adesso procedono le operazioni.

Le altre donne costrette al matrimonio forzato

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Aneesa e Arooj Abbas

Ma non solo Saman Abbas. Il mio pensiero va subito a quelle due donne, Aneesa e Arooj Abbas, che sono state strangolate e sparate a maggio di quest’anno nel villaggio di Nathia, nel distretto di Gujrat. Di cos’erano colpevoli le due donne? Semplicemente di esser tornate dalla Spagna dopo aver chiesto il divorzio dai propri cugini con cui erano state costrette a unirsi per un matrimonio forzato, per cominciare una propria vita, libere, in Europa. A essere accusati del loro omicidio sono sette familiari delle vittime. Nel 2019, nello stesso distretto del Punjab, era stata uccisa dal padre e dal fratello l’italo-pachistana Sana Cheema, 26 anni.

Tornando un po’ più indietro, ricordiamo la storia di Hina Saleem, una ragazza pakistana uccisa sul territorio italiano dai suoi parenti, in quanto non voleva sposare l’uomo con cui le era stato combinato il matrimonio. Hina, che aveva frequentato la scuola in Italia e aveva abbracciato la cultura della libertà e dell’indipendenza, aveva già denunciato la famiglia per maltrattamenti ed abusi, scappando anche da casa, ma al momento del processo non se l’era sentita di andare avanti e aveva ritrattato. Per questo fu anche accusata di calunnia.

Le persone che ebbero a che fare con la morte di Hina furono 4: il padre Mohammed Saleem (50 anni), lo zio Muhammad Tariq (sposato con la sorella della madre di Hina) e i due cognati di Hina: Zahid Mahmood (27 anni), sposato con Kiran (24 anni), e Khalid Mahmood (27 anni), sposato con Shahmila (21 anni). La madre (Bushra Begun, di 46 anni) e gli altri cinque tra fratelli e sorelle erano in vacanza in Pakistan (sembra che la stessa Hina dovesse recarvisi, ma che avesse rifiutato il biglietto già acquistato, temendo, una volta laggiù, di essere costretta al matrimonio che la famiglia auspicava).

Nel 2009 a venir uccisa è Sanaa Dafani, sgozzata dal padre perché si era innamorata di un ragazzo italiano: ma Sanaa, per tradizione, avrebbe dovuto sposare un uomo della sua stessa religione e nazionalità, ovviamente non scelto da lei bensì dalla sua famiglia. Aveva solo 18anni quando il padre l’ha sgozzata. Noshen Butt invece è riuscita a sopravvivere alla violenza del fratello, che l’ha massacrata di botte, solo grazie alla madre, Shannaz Begum, che l’ha difesa, venendo uccisa lei stessa dal marito che voleva dare la figlia in moglie a un connazionale. Ma Noshen voleva e vuole essere libera. Non vuole “vivere all’occidentale“: vuole essere libera.

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Sana Cheema

Più recente è la storia di Sana Cheema, 25enne italo-pakistana che è stata uccisa dal padre e dal fratello mentre si trovava in Pakistan, per aver detto “no” al matrimonio forzato. Pensate, addirittura, che i suoi assassini furono assolti dal Tribunale di Gujrat per mancanza di prove, in quanto dissero che la figlia e la sorella «mangiava poco, non stava bene da giorni, è morta per un malore», ma i due assassini in Italia dovranno rispondere di «aver cagionato la morte della ragazza per asfissia meccanica violenta mediante strangolamento» e per aver «annullato i diritti politici sociali fondamentali della vittima che è stata uccisa per aver ripetutamente rifiutato il matrimonio deciso dai congiunti».

Come migliorare la condizione delle donne?

Non è facile. Non cambi una mentalità da un momento all’altro: i padri che sono stati cresciuti in questo modo, cresceranno i propri figli allo stesso modo. Le famiglie che sono sottoposte a una mentalità persino dal governo, non riusciranno a cambiare come se nulla fosse. Ejaz Ahmad, giornalista e mediatore culturale ha affermato che «la famiglia Abbas proviene da un villaggio nel sud del Punjab, dove c’è una cultura rurale basata sull’onore. Il matrimonio con il primo cugino è il fulcro di quella società, derivante dal sistema-caste in Pakistan, necessario affinché le terre restino alla famiglia. Lo stesso Primo ministro ha sposato una donna della sua tribù».

«Le seconde generazioni sono arrabbiate e vogliono una soluzione. Serve una riforma, un islam italiano, perché quello dei Paesi d’origine non funziona qui. I testi coranici vanno tradotti in italiano. Ma serve maggior collaborazione delle ambasciate per trovare un’intesa. Dobbiamo creare nuovi leader, imam moderni. Non ci possiamo aspettare una rivoluzione dai vecchi capi delle scuole religiose. Moschee e mediatori possono avere un grande ruolo nell’integrazione, solo così avrebbe senso il dibattito sullo ius soli», conclude.

Per il momento, quindi, dobbiamo ricordare i loro nomi e le loro storie; dobbiamo ricordarle quando ci troviamo davanti a una situazione simile, quando abbiamo la possibilità di aiutare qualcuno, quando decidiamo di non voltarci dall’altra parte. Ricordate i nomi e le storie delle vittime, perché solo in questo modo potremo provare a cambiare la società.

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