Quell’ultimo esame di latino

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Si chiamava Diana Biondi. Aveva 27 anni. Aveva detto ai genitori e alla sua famiglia che si sarebbe laureata martedì prossimo, ma lunedì ha fatto perdere tutte le sue tracce. Le mancava quell’ultimo esame di latino, che non era riuscita a superare. E pur di non dire ai genitori che non si sarebbe laureata, ha scelto di gettarsi da un burrone e metter fine alla sua vita. Per quell’ultimo esame di latino, per quella materia tanto bella che ci dicono che ti apra la mente e riesca a farti vedere le cose dietro le apparenze, dove non c’è mai alcuna certezza ma devi leggere sempre il contesto di tutto.

Anche per quell’ultimo esame di latino che Diana non riusciva a superare, ha deciso di metter fine alla sua vita.

Diana studiava Lettere Moderne, e tutti scrivono che era fuoricorso. Quella targhetta che ci mettono addosso se non ci laureiamo nei tempi stabiliti da loro. Il suo è il terzo suicidio di uno studente universitario nel 2023, eppure ancora non abbiamo una soluzione, ancora cercano di nutrirci di quelle parole quasi confortanti in cui ci promettono che danno importanza alla nostra salute mentale e che stanno allestendo degli sportelli psicologici in ogni università. Quello che però non ti dicono è che per avere un incontro con quello sportello devi aspettare mesi interi perché gli studenti che vogliono un appuntamento sono troppi.

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Sono stata a lungo a osservare questa pagina bianca per comprendere bene cosa dire, cosa volevo trasmettere. Ho scritto così tanti articoli e condiviso così tanti post di sensibilizzazioni sul mondo universitario, per far comprendere a ogni studente che la sua singola vita vale più di qualsiasi voto possa ricevere, di qualsiasi opinione di un docente frustrato che ha dimenticato completamente cosa significhi essere uno studente, e anche di qualsiasi pressione sociale che piano piano, ma sempre più velocemente, ci travolge, ma non è mai abbastanza.

Non è mai abbastanza perché ormai la sensazione di sentirci un fallimento se non riusciamo a laurearci in tempo e se non prendiamo il massimo è radicalizzata dentro di noi. Non è mai abbastanza perché non gli importa davvero di noi. Siamo dei numeri. Prima c’è stato il ragazzo di Palermo, poi la ragazza di Milano, e ora la ragazza di Napoli. Uno, due, tre studenti che si sono uccisi a causa della pressione (come in ogni articolo, onde evitare fraintendimenti: sappiamo che dietro un suicidio può esserci un disturbo psicologico o delle motivazioni sociali, ma sappiamo anche che l’università può benissimo essere una causa di deterioramento di quest’ultime) e della fretta.

E si parla di loro, si parla del problema degli universitari per qualche giorno, per poi finire di nuovo nel dimenticatoio fino al prossimo suicidio. Lo ripeterò per sempre: perché non si interroga il ministero dell’Università e della Ricerca su quello che di concreto vuole fare per risolvere questo disagio? Per far sì che Diana Biondi sia l’ultima vittima di un sistema che, è evidente, non funziona più. Non ha senso continuare a parlare di sportelli psicologici che possono essere utili solo se funzionano davvero e se permetti a tutti gli studenti di avere un incontro a settimana o ogni volta che ne hanno bisogno.

Basta piangere vittime, basta romanzare le loro storie per fare qualche click in più perché adesso fra i media “va di moda” parlare dello studente che si è suicidato dato che sempre più persone hanno cominciato a svegliarsi e a comprendere che esiste un problema. Che i giornali si ricordino del disagio vissuto sulla pelle dei giovani adulti anche mentre celebrano l’eccellenza. Che se ne ricordino quando decidono di lanciare messaggi su come sia meglio studiare di notte che dormire. E la ministra, soprattutto, cominci a parlare con gli universitari. Ma per davvero.

Per te, Diana, per quell’ultimo esame di latino

Non racconterò quello che ha fatto Diana, non voglio dire cosa hanno detto i suoi genitori e parlare delle sue ultime ore. Voglio iniziare con una frase proprio in latino: “Finis miseriae mors est“, ovvero “La morte è la cessazione di ogni affanno”. È un proverbio molto antico, non si sa di chi sia, ma Diana deve averla vista in questo modo. L’università e la vita erano divenute degli affanni per lei, un dolore e una fatica che non è stata più in grado di affrontare, non da sola almeno.

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Perché non importa quanto i nostri genitori ci amino, quanto ci vogliano vedere felici, quanti amici abbiamo al nostro fianco, a volte è anche in mezzo a quell’amore che ci sentiamo completamente soli. In cui ci sentiamo come se fossimo gli unici al mondo a provare quelle emozioni.

Avrei voluto dire a Diana che, in realtà, non era sola. Che, purtroppo, ci sono fin troppi studenti che si sono sentiti e si sentono ancora oggi proprio come lei; studenti che oggi non riescono a non pensarla, studenti che probabilmente avrebbero voluto abbracciarla e dirle: Diana, finirà. Anche l’università finirà, e che importa se con o senza una laurea, che altro non è che un pezzo di carta?

Tu non sei quel pezzo di carta. La tua vita è più importante. Lo è più dei voti, più di quella targhetta che ti hanno messo addosso solamente perché non ti sei laureata nel tempo che hanno deciso. 60 CFU circa all’anno, e se non riesci a darne 180 in tre anni, allora non sei più in tempo.

E non essere in tempo, implica disonore. Un altro proverbio latino recita “Malo mori quam foedari“, ovvero “Preferisco la morte al disonore”. Ovviamente pensarlo secoli e secoli fa, quando la vita forse non era considerata così importante e quando la pena di morte era legale, era quasi lecito.

Ma il fatto che ancora oggi tantissimi studenti pensino che sia meglio morire piuttosto che finire in fuoricorso, dovrebbe far ragionare le autorità competenti. E soprattutto, perché avere dei propri tempi è visto come un disonore? Perché aver bisogno di più tempo rende inferiori? Chi è che ci ha distrutti in questo modo? Perché ci avete uccisi e continuate a farlo? E perché non fate niente per aiutarci a salvarci?

Siamo arrabbiati, siamo tristi, siamo delusi. Vogliamo delle soluzioni e le vogliamo ora, per far sì che le vite di tutti i nostri colleghi non restino un semplice numero, passando da un numero di matricola a un numero in un elenco di persone morte. Dietro quei numeri ci sono e ci saranno sempre delle persone. Diana era una persona. Diana Biondi era una figlia, un’amica. Diana ha sentito più degli altri quella pressione, forse anche quegli articoli e quei post con la corona d’alloro. E non ce l’ha fatta più.

Mortui non mordent“, “un uomo morto non fa la guerra“. Non voglio dire che Diana ha perso la battaglia contro un sistema universitario che ci preferisce morti, che si vanta di bocciare quattordici volte uno studente per poi domandare alle matricole se qualcuna di loro sarà capace di superare quel record. Diana non ha perso alcuna battaglia. Lei ha lottato a lungo contro l’università ma anche contro la propria mente, contro quella pressione che, alla fine, ha finito per ucciderla. Ma non ha perso. Nessuno di loro ha perso.

A perdere è stata l’università e i docenti che non sono stati capaci di comprendere il disagio dei propri studenti, che non sono capaci di trasmettere la propria passione per la materia che insegnano e, soprattutto, che si vantano di creare un esame troppo complesso che uno studente, pur studiando per mesi e mesi, non riesce a superare. Un bravo docente sa che la bocciatura di uno studente è anche la propria.

Creano una competizione che non esiste. Mettono gli studenti uno contro l’altro facendo credere che chi prima di loro finisce, prima avrà successo e prima sarà migliore di tutti gli altri. Fanno credere che gli appunti delle lezioni non vanno passati perché se uno vuole essere promosso deve seguire tutte quelle lezioni in cui semplicemente si leggono delle slide o si passa da un argomento all’altro senza accertarsi che tutti l’abbiano compreso.

Arrivano a farti pensare che se aiuti un collega durante un esame, la colpa è tua e quindi anche tu devi subirne le conseguenze. È colpa tua perché stai aiutando un futuro rivale nel settore, e se c’è un settore che ha troppe richieste e pochi posti è quello dell’insegnamento, quello che viene visto come l’unico motivo per iniziare la facoltà di Lettere.

Omnia mors aequat“, “la morte ci rende tutti uguali”, e vorrei fosse così. Ma anche dopo la morte, Diana non sarà vista allo stesso modo degli altri. Basta vedere i commenti sotto i tanti articoli: debole, fragile, non è colpa di chi ce la fa, i suicidi ci sono sempre stati, e allora i lavoratori? Dov’è finita la sensibilità? E soprattutto, dov’è il post della ministra dell’Università e della Ricerca?

In un certo senso, Diana era già uguale a tutti i suoi colleghi universitari, perché tutti viviamo e sentiamo l’ansia e la pressione opprimerci ogni giorno di più, tutti vorremmo scoppiare a piangere dopo che un docente ci ha detto che presentarci al suo appello è un insulto nei suoi confronti, tutti abbiamo pensato di mollare. Diana è in tutti noi, ancora oggi.

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Diana continua a vivere nelle lacrime di ogni studente che leggendo la sua storia pensa che ci sarebbe potuto essere lui al suo posto. Diana vive nei colleghi che escono demoralizzati da quell’ultimo esame di latino. Diana vive in chiunque continui a provare quell’ultimo esame per più di anno, vedendo quel pezzo di carta sempre più lontano. Diana vive negli studenti che scendono nelle piazze per rivendicare il proprio diritto a vivere, il proprio diritto ad avere quell’appello in più, quell’anno accademico prolungato, quel diritto a vedere riconosciuta la propria salute mentale.

Diana vive in ognuno di noi che abbiamo dentro un peso che diventa più pesante giorno dopo giorno. Ma Diana è morta, Diana è stata uccisa dalla depressione, e da quel sistema che la depressione non la riconosce. Diana è morta, ma noi non la dimenticheremo.

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