La lezione che CyberPunk 2077 avrebbe dovuto insegnare…

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Rilasciato al pubblico mondiale il 10 dicembre 2020, CyberPunk 2077 è indiscutibilmente uno dei giochi più attesi della storia videoludica.

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Copertina di CyberPunk 2007. [Fonte: Venturebeat]
Sin dalle prime notizie al riguardo, durante la conferenza estiva di CD Projekt Red nel maggio 2012, CyberPunk 2077 ha suscitato un notevole interesse nel pubblico, alimentato da notizie tanto scarne quanto saltuarie.

Si tratta di un videogioco open world, ovvero di un mondo enorme da esplorare e da vivere, grazie a milioni di linee di dialogo registrate che permettono di interagire con la stragrande maggioranza dei PersonaggiNonGiocanti presenti nell’ambiente di gioco. A questo va aggiunta l’amplissima personalizzazione del proprio personaggio, che va dalla semplice estetica dei vestiti e accessori fino a modificarne le parti del corpo a piacimento. Compresi i genitali.

Sì, in CyberPunk 2077 è possibile scegliere il proprio sesso ed editarlo a piacere. Infine, il personaggio creato dal giocatore è immerso in un sistema di gioco di ruolo in stile avventura dinamica, nel quale è possibile scegliere la “classe” del proprio personaggio, le sue abilità basilari e quelle avanzate, nonché di comprarne/sbloccarne nuove tramite vari potenziamenti.
Il tutto è rivestito da una grafica strepitosa, con un’ottima colonna sonora e un eccellente doppiaggio, uniti a una fisica di gioco incredibilmente realistica.

In teoria.
In teoria CyberPunk 2077 sarebbe dovuto essere così.

CyberPunk 2077: Com’è in realtà il gioco.

Nella pratica, invece, CyberPunk 2077 è stato molto diverso…

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In foto, Judy Alvarez, uno dei personaggi più chiacchierati di CyberPunk 2077, in quanto lesbica. [Fonte: Tom’s Hardware]
Il gioco è stato posticipato per ben tre volte e ha richiesto svariati anni di sviluppo altalenante, complice il fatto che, nel frattempo, il team di sviluppo di CD Projekt Red fosse impegnato su The Witcher 3: Wild Hunt e relative espansioni. L’ammontare di fondi spesi per produrlo è stato pantagruelico: oltre 121 milioni di dollari solo per lo sviluppo e quasi altri 209 per le spese di marketing, giungendo a un impressionante totale di circa $330.000.000.

 

La tanto millantata grafica strepitosa girava su un computer decisamente più potente di quello dell’acquirente medio, che pertanto spesso non ha potuto usufruirne come avrebbe voluto. Tra infiniti crash, freeze, cali di fps, bug, glitch e quant’altro, l’esperienza di gioco di tanti acquirenti è stata altalenante, per usare un eufemismo. Sul web hanno cominciato a circolare centinaia di soluzioni, consigli, trucchi, fix e patch, a volte amatoriali a volte ufficiali, ma tutte molto diverse tra loro e con un unico comune denominatore: la pessima ottimizzazione hardware.

Ai giocatori su console è andato persino peggio, visto che pareva di giocare a un videogame del 2007. L’ammontare di lamentele, richieste di rimborsi, querele e class action, ha fatto sì che Sony ritirasse direttamente il prodotto dallo Store, mentre Microsoft ne permettesse il download solo tramite un gigantesco avviso di attenzione.

Le vendite di Cyber Punk 2077 hanno subìto un crollo verticale a 360 gradi appena dopo 4 giorni dal lancio, quando le voci sui malfunzionamenti di gioco su ogni piattaforma si erano sparse ed erano migliaia i video di gameplay amatoriali sul web che le testimoniavano.

Dopo settimane di baraonda, di tira e molla, di patch e hotfix, la CD Projekt Red ha dovuto persino scusarsi pubblicamente, minacciata dai publisher che si stavano dissanguando sotto il peso di milioni di risarcimenti e cause legali. Purtroppo per loro, la tempesta non si è calmata e, dopo ulteriori perdite monetarie e una serie riduzione del personale, sono stati recentemente anche hackerati i loro server, apportando un enorme danno d’immagine e lavorativo (molti codici sorgente sono stati cancellati e dovranno essere ripristinati dai back-up, con tutte le conseguenze del caso). Inoltre gli hacker hanno detto di voler divulgare i leak di dati personali e lavorativi per “punirli”, a meno di non pagare un riscatto.

Quattro anni di lavoro si sono dissolti in tre mesi. Un epilogo tragico, non ancora giunto del tutto al termine, e che certamente si ripercuoterà a breve e lungo termine sulla CD Projekt Red.
Ma non è così che sarebbe dovuta andare.

CyberPunk 2077: Cos’è andato storto?

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Edizione alternativa della cover di CyberPunk 2077. [Fonte: Everyeye]
Sebbene sia innegabile la responsabilità di CD Projekt Red in questo disastro, buona parte della colpa va ricercata altrove. Non tanto nei publisher avidi di denaro, che hanno pompato le aspettative su questo gioco fino all’impossibile, quanto nei giocatori stessi che, come ogni altra volta, hanno voluto vedere l’arrivo del Messia nella data d’uscita, solo per avere un’amara epifania: non è tutto oro quel che luccica.

 

I videogame sono un business. Non uno da un pugno di dollari, ma uno che smuove miliardi ogni anno in tutto il mondo. I publisher campano di vendite e devono vendere ciò che producono gli sviluppatori. Questi, a loro volta, non sono déi né supereori, ma semplicissimi uomini, anzi dipendenti, con un lavoro tutt’altro che semplice e spesso fin troppo rognoso. È ovvio che le Software House vogliano vendere i loro giochi ed è altrettanto ovvio che non si facciano (né si sono mai fatte) scrupoli nel cercare di spacciare i loro prodotti per oro colato.

Non si è mai sentito di una SH che parlasse dei suoi prodotti in toni differenti dall’entusiasta pur di rifilarli ai compratori, soprattutto perché sono consci che un sacco di gente ha gli occhi foderati di prosciutto e comprerebbero qualsiasi cosa senza mai lamentarsi.

Sanno bene anche che possono imporre tranquillamente le loro date di uscita alle case di sviluppo, poi costrette fare settimane intere di lavoro ininterrotto pur di rispettare scadenze al limite dell’osceno. In gergo, questo viene chiamato “Crunching” ed è purtroppo sistematico in certe linee di produzione videoludica, dove i programmatori si ritrovano a dormire in ufficio su un’amaca 4 ore a notte e mangiare solo pizza d’asporto per giorni interi. Il tutto per uno stipendio normale, se non addirittura inferiore certe volte, siccome alcune case tendono a non pagare gli straordinari fatti durante il cruncing.

Qualora neanche così il videogioco dovesse essere pronto, spesso ad andarci di mezzo sono comunque i dipendenti/lavoratori/sviluppatori dello stesso. La Konami, ad esempio, è famigerata per il trattamento disumano che riserva agli impiegati, specie quelli di basso livello, nella branca videoludica. Gli effettivi programmatori che hanno creato il gioco sono quasi sempre ingranaggi insignificanti schiacciati da meccaniche lavorative e capitalistiche molto più grandi di loro, eppure sono sempre loro che ci vanno di mezzo quando un videogioco delude le aspettative.

Il punto, qui, non è denigrare il videogioco CyberPunk 2077, né la CD Projekt Red, ma rendersi conto che questo continuo hype che le grandi case continuano incessantemente a pompare nei videogiocatori è una tossina mortale per il mondo videoludico.

CyberPunk 2077: Quando il troppo stroppia.

Quando le aspettative diventano troppo grandi nessun gioco le regge. CyberPunk 2077 è con tutta probabilità un buon gioco, la cui unica “colpa” è stata quella di essere pubblicizzato per anni come il miglior gioco del secolo. A questo va aggiunto che è stato spinto e rispinto per uscire il prima possibile, quando invece è diventato subito evidente che il gioco fosse ancora in fase di beta-testing e non era certo già pronto a diventare un prodotto finito da lanciare sul mercato.

Al giorno d’oggi, le SH campano sul fatto che, con lo sviluppo di internet, non importa quanto sia bacato o incompleto un gioco, è sempre possibile rilasciare aggiornamenti, patch e fix dopo l’uscita. E l’uscita dev’essere il più presto possibile, perché oggi il pubblico scalpita, domani chissà… Tanto sanno bene che ci saranno sempre i gonzi pronti a comprarlo anche se non è finito. E poi magari si sistema meglio. Forse. Oppure no, oppure i videogiocatori dopo qualche mese hanno trovato qualcos’altro su cui indignarsi e quindi non serve nemmeno sprecarsi a farlo.

Il mercato videoludico si sta incancrenendo perché le SH continuano a trattare i giocatori come anatre grasse dirette al macello e loro continuano a permetterglielo.

CyberPunk 2077 è solo l’ennesima dimostrazione che il pubblico si eccita per nulla quando guarda i nuovi videogiochi in arrivo, mentre tralascia costantemente le cose veramente importanti. Per esempio, la personalizzazione dei genitali: presentata come una feature innovativa, incredibile e all’avanguardia, ha suscitato subito scalpore tra i giocatori, che si sono precipitati a tesserne le lodi manco fosse il Sacro Graal.

Parlando schiettamente: quando mai in 63 anni che esiste il gaming a qualcuno è mai servito o anche solo interessato personalizzare i genitali del proprio personaggio?! Una feature spacciata per geniale e accolta tra gli applausi, ma nessuno che abbia avuto il buon senso di chiedere e di chiedersi: “Ok, ma a che pro? A cosa serve? Che me ne faccio?”. Centinaia di ore di lavoro e soldi spesi per implementare questa roba in un gioco, con un effettivo impatto sul gameplay pari a 0. Una volta personalizzati i genitali, la schermata si chiude e non verranno mai più visti per tutto il resto del gioco.

Personalizzare i genitali del proprio personaggio in CyberPunk 2077 apre nuove strade nella trama? Lo rende esteticamente più piacevole? Ha un’utilità o un qualsivoglia utilizzo all’interno del mondo di gioco? Si può mostrare agli altri giocatori? No. Semplicemente no.

Questo è ovviamente un caso limite, ma spiega benissimo quanto sia facile spostare l’attenzione dell’acquirente medio dalle cose che contano.

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Johnny Silverhand, personaggio di CyberPunk 2077, modellato su e impersonato da Keanu Reeves. [Fonte: Threatpost]
A che pro creare milioni di linee di dialogo se il giocatore medio ne ascolta un migliaio al massimo? Qualcuno le ascolterà mai tutte? O avrebbe anche solo interesse a farlo?
A che pro creare una città “viva” se buona parte delle interazioni rimangono inutilizzate, oppure sono fonte di bug?
A che pro creare un ambiente enorme liberamente esplorabile se buona parte di esso non verrà mai vista dal giocatore, né avrà mai interesse a farlo, e non verrà nemmeno mai utilizzata?
A che pro creare un motore grafico potentissimo se poi non è capace di gestire effetti visivi banali o dopo si è costretti a ricorrere a squallidi escamotage per non renderlo un macigno sui fps?

Queste sono solo alcune delle domande che i giocatori dovrebbero farsi e avrebbero dovuto farsi già a tempo debito, per poi rigirarle agli sviluppatori. Invece si sono fatti allettare da musiche fighe, grafica pompata, genitali personalizzabili e dal doppelgänger virtuale di Keanu Reeves.

 

È questa la lezione che CyberPunk 2077 avrebbe dovuto infliggere e stampare a fuoco nella memoria collettiva della comunità videoludica: badare alla sostanza e non alla forma. Badare alla qualità effettiva e non a quella estetica. Pretendere un gameplay solido e affidabile, non uno sbrilluccicoso pieno di crash e freeze. Non accontentarsi di quello che mostrano le pubblicità, ma scavare a fondo per vedere se è davvero ciò di cui il gameplay necessita.

Ricordarsi che nessun videogioco potrà mai essere perfetto, quindi è inutile urlare al miracolo ogni volta che una SH annuncia un nuovo titolo; ma anzi, andarci coi piedi di piombo per non farsi offuscare gli occhi dagli slogan e dalle pubblicità.
Tenere bene a mente che ogni videogioco costa soldi, ogni feature è una spesa e, siccome i soldi non sono infiniti, per aggiungere qualcosa va tagliato qualcos’altro; quindi è importante che i soldi spesi lo siano per le cose fondamentali, non quelle superflue.

Una lezione, a dire il vero, molto vecchia e mai imparata. La storia videoludica è piena di altri titoli lanciati in pompa magna e finiti in rovina nel dimenticatoio. Eppure, ogni sacrosanta volta, la storia si ripete. E ogni volta dopo la prima, è sempre una farsa.

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