Afghanistan: ennesimo appello dalla comunità LGBT

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In più occasioni vi abbiamo parlato della tragica situazione delle persone LGBT in Afghanistan, eppure a nulla serve perché nessuno riesce a intervenire, e intanto le persone soffrono e muoiono solo perché amano una persona del loro stesso sesso o perché non si identificano nel sesso in cui sono nate. La richiesta d’aiuto è stata prima lanciata da un profilo Instagram di attivisti LGBT, poi è stata condivisa tramite le notizie che stavano cominciando a trapelare riguardo alla vita delle persone nello stato, e infine dall’intervista con il professore Ahmad Qais Munhazim.

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Fonte: pixabay

La situazione delle persone LGBT in Afghanistan già prima dell’arrivo dei talebani non era positiva. Una comunità non esisteva, le persone venivano uccise ma venivano uccise nel silenzio generale. Quello che cambierà adesso è che saranno uccise in piazza, davanti a tutti, come se fosse una punizione. Le persone in Afghanistan LGBT vanno aiutate adesso, come andavano aiutate anche prima e come andranno aiutate anche nel futuro. Tuttavia, la richiesta d’aiuto inizialmente arrivò da una pagina LGBT afghana su Instagram:

«Noi persone afghane LGBT+ siamo minacciate di sterminio per il solo fatto di essere noi stessǝ. Vi esortiamo a concedere asilo alle persone LGBT+ afghane!», hanno scritto 3 giorni fa. Ieri, invece, hanno scritto un post più lungo, ringraziando «tutti per la vostra gentilezza con le persone in Afghanistan, specialmente per la comunità LGBT afghana. A causa del grande volume di messaggi, non siamo in grado di rispondere a tutti i messaggi, ma grazie a tutti per l’invio di messaggi da tutto il mondo.

Secondo la nostra ricerca, le persone LGBT afgane sono in grave pericolo a causa del controllo del potere da parte dei talebani. Molte persone LGBT sono state giustiziate dai talebani tra il 1996 e il 2001. I talebani sono molto violenti con le persone LGBTQ. Abbiamo ricevuto molti messaggi che molte persone nella comunità queer hanno perso le loro case a causa della guerra e vivono per strada senza riparo. Molti queer non hanno accesso a cibo, medicine e beni di prima necessità.

Inoltre, a causa dell’aumento della violenza, molte persone stanno cercando di lasciare l’Afghanistan, ma non possono permetterselo». Spiegano che per questo motivo hanno deciso di raccogliere delle donazioni insieme a Queerkade, un’associazione canadese senza scopo di lucro. «Le vostre donazioni raggiungeranno gli afghani che sono dovuti scappare dall’Afghanistan per salvare la propria vita e coloro che non sono ancora stati in grado di andarsene».

Ahmad Qais Munhazim è, fa sapere Gay.it, l’«assistente professore di studi globali della Thomas Jefferson University, a East Falls in Philadelphia ed esperto di migrazioni Lgbt+Il suo cellulare è un trillo continuo di messaggi che arrivano da un paese naufragato nel terrore». Racconta che una persona transgender gli ha scritto che «c’è speranza di svegliarmi domani ma ho paura che qualcuno mi ucciderà stanotte». «Un mio amico nella provincia di Lowgar è stato catturato dai talebani e portato in moschea. Gli hanno tagliato parti del corpo, lo hanno smembrato. Anche la famiglia non ha denunciato il fatto perché tutti qui abbiamo paura», racconta un altro. (Trovate altro qui: Afghanistan LGBT: l’appello del professore Ahmad Qais Munhazim a Gay.it)

Le persone, tutte le persone, in Afghanistan vanno aiutate. Non solo i bambini, non solo le donne, non solo i collaboratori. Se si arriva a pensare che attaccarsi a un aereo rischiando di morire (e, alla fine, morire) precipitando pur di non restare sotto la dittatura dei talebani sia normale, c’è un problema di base nella nostra società. Vi ricordiamo che abbiamo scritto un articolo con tutte le associazioni a cui potete donare e anche delle petizioni da firmare. Se potete, donate. Se non potete, almeno firmate.

Afghanistan: ragazzo gay ustionato dai talebani

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Fonte: pixabay

Si chiama Sohil, è un giovanissimo afghano dichiaratamente omosessuale che ha raccontato l’inferno che sta vivendo su PinkNews, raccontando di come abbia cercando di vivere nell’ombra nascondendosi dai talebani, ma che non è servito a nulla. «Immagina di avere grandi speranze per la tua vita, hai tutto, e poi un giorno ti svegli e tutto è perso», ha detto all’inizio dell’intervista, e noi possiamo solo immaginare quello che significhi per questo ragazzo come per tutti quelli in una situazione analoga alla sua.

«Ho perso la mia università, ho perso la mia vita, ho perso la mia comunità. Anche i ragazzi con cui ero in contatto, vivono tutti nell’ombra. Si nascondono tutti», ha detto, raccontato con malincuore quando era una «persona normale», ovvero prima che i talebani cominciassero a perseguitarlo solo perché ama delle persone del suo stesso sesso. Lui studiava medicina e il suo sogno era quello di lasciare l’Afghanistan, e speriamo che un giorno ci riesca davvero.

«Vivo come un prigioniero. Vivevo a casa mia con la mia famiglia. Dopo che i talebani mi hanno attaccato, non ho più potuto stare in casa mia perché avrebbero riconosciuto la mia faccia, sapevano chi sono. Adesso vivo in un’altra casa. La mia famiglia non sa della mia omosessualità. Se glielo dico, perderò anche il loro sostegno», ha detto, cominciando poi a raccontare come i talebani gli abbiano gettato dell’acqua bollente addosso:

«Indossavo solo jeans normali e una maglietta. Improvvisamente qualcuno mi ha afferrato la mano. Indossavo una mascherina perché non volevo che nessuno vedesse la mia faccia. Il mio cuore batteva forte. Ho visto che c’era un tizio che aveva una pistola. Mi ha chiesto: ‘Cosa ci fai qui?’. Ho detto: ‘Sono venuto per il mio certificato di nascita’. Ha replicato: ‘Perché indossi quella maglietta? Indossi abiti occidentali’. Ho detto: ‘Sono solo vestiti normali, tutti li indossano’. Sapevo che non si trattava dei miei vestiti. So che in qualche modo aveva identificato che non fossi eterosessuale.

Mi ha portato nel suo ufficio e mi ha chiesto di nuovo: “Perché indossi questo e perché sei qui?”. Ho risposto di nuovo: “Sono venuto per la mia carta d’identità e il mio certificato di nascita”. “Stai mentendo”, ha urlato. “Mi ha schiaffeggiato in faccia e sono caduto a terra. Altri due soldati mi hanno picchiato. Ha chiesto di nuovo: “Chi sei?”. Non ho confessato di essere un attivisti LGBT. Poi mi ha picchiato di nuovo e mi ha preso a calci nello stomaco. Qualcuno mi ha afferrato la mano e mi ha spinto fuori di lì in qualche modo, non so come. Dopo non sono riuscito a dormire per una settimana».

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Ovviamente al momento Sohil è terrorizzato e teme per la sua vita, per il suo futuro, ma anche per quello di tutte le persone che come lui si trovano in Afghanistan a subire questa situazione. «Non sappiamo se saremo vivi domani o no», ha detto, rivolgendosi poi a tutto il mondo: «Penso che il mondo intero non ci pensi. Penso che la nostra comunità LGBT+ non ci pensi. In due mesi nessuno mi ha contattato… speravo che la nostra comunità LGBT+ ci aiutasse, ma giorno dopo giorno sto perdendo la speranza.»

Conclude poi: «Io non so cosa fare. Speravo che la nostra comunità LGBT+ ci aiutasse, ma non c’è nessuno che ci difende. Sono totalmente scioccato, speravo che la comunità LGBTQ ascoltasse la nostra voce, ma sono tutti completamente spariti. Nessuno ci ascolta, nessuno si occupa di noi. In questo momento abbiamo bisogno di più aiuto, non c’è nessuno. Perché si sono dimenticati di noi?». Noi speriamo con tutto il cuore che qualcuno possa e riesca ad aiutare Sohil e tutti i ragazzi della LGBT community in Afghanistan.

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